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Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

Yōkame no semi (八日目の蝉, Rebirth)

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Yōkame no semi (八日目の蝉, Rebirth). Regia: Narushima Izuru. Soggetto: dal romanzo a puntate di Kakuta Mitsuyo. Sceneggiatura: Okudera Satoko. Fotografia: Fujisawa Junichi. Interpreti: Inoue Mao (Erina), Nagasaku Hiromi (Kiwako), Koike Eiko (Chigusa), Moriguchi Yōko (la madre naturale), Ichikawa Miwako, Yo Kimiko, Tanaka Tetsushi (il padre), Fubuki Jun. Produzione: Satō Naoki, Arishige Yoichi, Yoshida Naoko per Shochiku. Durata: 147′. Uscita nelle sale giapponesi: 29 aprile 2011.
Link: Sito ufficialeRichard Gray (The Reel Bits) – Peter Galvin (Seven Billions Stories)
PIA: Commenti:4/5   All’uscita delle sale: 78/100
Punteggio ★★★1/2  
Kiwako (Nagasaku Hiromi) ha una relazione con un uomo sposato, rimane incinta ma lui la convince ad abortire dicendole che è presto, che in futuro lui lascerà la moglie e poi potranno costruire la loro famiglia con calma. Quando la moglie (Moriguchi Yōko) partorisce una bambina, Erina, e lei capisce di essere stata ingannata, rapisce la neonata. Finisce in una comunità per ragazze madri e vive quattro anni dedicandosi alla bambina, finché viene scoperta incidentalmente, viene arrestata e la bambina viene restituita ai genitori. Vent’anni dopo, Erina, ormai adulta (Inoue Mao), vive da sola, ha una relazione con un uomo sposato, rimane incinta ma, a differenza dell’amante del padre, decide di tenere il bambino. Ritrova Chigusa, una compagna di giochi dei tempi dell’asilo per ragazze madri (Koike Eiko) e intraprende con lei un viaggio alla ricerca del passato che è anche un viaggio di emancipazione del presente.
La cicala (in giapponese semi) è quell’essere vivente che dopo anni di esistenza sotterranea, lascia il suo guscio per vivere intensamente circa una settimana e poi morire, venendo così a rappresentare emblematicamente il cosiddetto mono no aware, uno dei concetti cardine della cultura giapponese, che indica la transitorietà delle cose e il leggero senso di dolce malinconia per il loro passare. Il titolo del film, la cui traduzione letterale è “la cicala dell’ottavo giorno”, si richiama esplicitamente a questa dimensione e al suo travalicamento. A un certo punto del film Erina e Chigusa parlano pacatamente della vita e una delle due dice all’altra che le cicale non soffrono del fatto di vivere così poco perché è così per tutte, anzi se esistesse una cicala in grado di vivere otto giorni sarebbe ancora più triste perché sarebbe tutta sola. Più avanti, le due donne torano sull’argomento e si dicono che se esistesse una cicala capace di  vivere otto giorni, in realtà non sarebbe triste perché potrebbe vedere cose mai viste. 
E’ proprio questo tentativo di far convivere cose apparentemente non compatibili, di superare i confini di ciò che pare ovvio, di recuperare ciò che pare perso, la cifra delle film e delle sue vicende. Maternità effettiva e maternità affettiva, colpa e amore, perdita dell’innocenza e riscoperta delle radici si intrecciano in un film non consolatorio, difficile, talvolta fuori registro ma sempre efficace nella costruzione della tensione drammatica. In un crescendo di sequenze avanti e indietro nel tempo veniamo a percepire che la vera privazione dell’infanzia della protagonista non sta tanto nel rapimento e nei successivi quattro anni con la rapitrice, quanto negli anni successivi al ritorno a casa, schiacciata da un ambiente famigliare fatto di un padre irresponsabile e di una madre aggressiva che non riesce a riamare la figlia e anzi la odia perché non è capace a farsi sentire da lei come madre e a sentirla come figlia. Le domande che ci pone il film sono poi proprio queste: che cos’è la famiglia? Quali sono le relazioni famigliari vere? Quali sono i nessi ultimi fra relazioni famigliari e relazioni affettive? Sono domande riprese indirettamente da Chigusa, quando dice a Erina che lei a seguito dei traumi dell’infanzia non riesce ad avere rapporti con gli uomini e quindi non potrà avere figli propri ma che intende partecipare alla gravidanza di Erina standole vicina e condividendone le emozioni. Nella società giapponese contemporanea (ma non solo), segnata da una concezione ancora più che altro contrattualistica dell’istituzione famigliare e attraversata da ventate di dissolvenza delle identità sessuali di genere, temi come questi risultano particolarmente pregnanti. E non è un caso che ben tre dei drama di maggior successo della stagione autunnale (Kaseifu no Mita, Bitter sugar, Watashi ga renai dekinai riyū) siano stati incentrati sulla travagliata costruzione di assetti affettivi diversi dalla famiglia e dalla relazione di coppia tradizionali.
Narushima (già autore dell’interessante Kokō no mesu, A Lone Scalpel, 2010, e soprattutto del film d’epoca bellica dell’anno, Admiral Yamamoto) è molto bravo a evitare gli effetti plateali del melodramma e a raccontare le vicende delle varie donne coinvolte in maniera tutto sommato sobria, conferendo proprio per questo maggior drammaticità alle storie e ai temi affrontati.
La fotografia ha una sua presenza nelle scene delle diverse epoche e ambientazioni. Certo, il film è soprattutto un film di attrici, a cominciare dalla grande Nagasaku Hiromi, passando per la brava Ichikawa Mikako e per Yo Kimiko un po’ sopra le righe come direttrice dell’ospizio per ragazze madri, fino a Moriguchi Yōko nel ruolo della madre naturale e a una Koike Eiko recuperata rispetto a vari ruoli banali di precedenti film. Ma è soprattutto il film della consacrazione di Inoue Mao che, dal successo giovanilistico di Hana yori dango, passando per Ohisama (il miglior drama del 2011) e Oba: The Last Samurai, sta ormai assurgendo alla statura di attrice drammatica tout court. [Franco Picollo]
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