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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

Akumu tantei 2 (悪夢探偵2, Nightmare Detective 2)

 

La X edizione dell’Asian Film Festival di Reggio Emilia (16-24 marzo 2012) dedica la retrospettiva a Tsukamoto Shin’ya, che sarà presente al Festival e riceverà un premio alla carriera. In occasione di tale importante evento, Sonatine pubblica le schede critiche di tutti i film di Tsukamoto, che andranno a configurare uno Speciale Tsukamoto sempre consultabile online.
 
nightmare_detective2_poster-2427405Akumu tantei 2 (悪夢探偵2, Nightmare Detective 2) Regia: Tsukamoto Shin’ya. Sceneggiatura: Tsukamoto Shin’ya e Kuroki Hisakatsu. Fotografia: Tsukamoto Shin’ya e Shida Takayuki. Montaggio: Kuroki Yuzi e Tsukamoto Shin’ya. Musica: Chū Ishikawa e Kawahara Shin’chi. Interpreti e personaggi: Matsuda Ryūhei (Kagenuma Kyōichi), Miura Yui (Mashiro Yukie), Ichikawa Miwako (Kagenuma Itsuko), Mitsuishi Ken (Kagenuma Takio), Andō Wako (Mutsumi), Matsushima Hatsune (Akiko), Kan Hanae (Kikugawa Yūko). Produzione: Kaijyu Theater, Movie-eye Entertainment. Durata: 102’. Anno: 2008. Uscita nelle sale giapponesi: 20 dicembre 2008.
Link: Sito ufficiale del regista (in giapponese) – Mark Schilling (Japan Times) – Todd Brown (Twitch) – Chris MaGee (Toronto J-Film Pow-Wow)
Dopo aver subito uno scherzo da parte di tre compagne di scuola, Yūko rifiuta ogni contatto con l’esterno e per vendicarsi della crudeltà patita compare nei sogni delle amiche. Due di loro muoiono in misteriose circostanze e Yukie, temendo per la sua vita, si rivolge a Kagenuma Kyoichi, il detective degli incubi, pregandolo di entrare nei suoi sogni per convincere Yūko a desistere dalla vendetta. Kyōichi intravede nelle paure di Yūko lo stesso disagio mentale che, anni prima, portò la madre Itsuko a togliersi la vita: accetta quindi di entrare negli incubi di Yūko, sperando di superare il trauma causato dal suicidio materno. 
Nel cinema d’autore la serialità risponde alla necessità di svolgere ancora quell’ispirazione ossessiva che – banalizzata – porta a dire che l’Autore ripete, all’infinito, sempre il medesimo film. Dove il sequelcommerciale mira a riprodurre l’idea vincente a fini di lucro, quello d’autore vive di scomposizioni e ricomposizioni della precedente creazione, con la continuità del discorso affidata a stile e messaggio. Nightmare Detective 2 sembra rimanere a metà strada fra le due possibilità, mancando l’occasione di declinare il genere (l’horror psicologico) e la tendenza produttiva (la serialità) in una logica d’arte. Potremmo allora dire che Tsukamoto genera l’ennesimo ibrido, celebrando la fusione della pellicola d’autore nel cinema mainstream: l’ispirazione, però, non resiste all’esperimento e finisce per arenarsi nelle secche di un’involuzione creativa.
L’opzione più evidente, rispetto al primo episodio (Nightmare Detective, 2007), è data dall’implosione dei luoghi del racconto e del racconto medesimo. Si registra l’abbandono dello spazio metropolitano, che nel film precedente scandiva i vari momenti della storia funzionando (benissimo) non da semplice fondale dell’azione ma quale materializzazione urbanistica dell’angoscia esistenziale rappresentata, nella deriva suicida, dal personaggio di Zero. Spariscono quindi acciaio, cemento e vetro (i grattacieli ripresi nel loro aspetto plastico e traslucido, resi intimidatori da close up e campi medi a nasconderne l’altezza) per lasciare il posto all’abitazione familiare, che può essere quella tradizionale (la casa del nightmare detective bambino) o quella contemporanea (il rigoroso open spacein bianco e nero, con design italiano d’ordinanza, dell’abitazione di Yukie). Qui Tsukamoto alterna simmetrie a disordine per simboleggiare il contrasto fra l’apparente quiete e le fobie latenti che abitano le sue famiglie disfunzionali (i genitori di Yūko, fantasmi dall’espressione catatonica, inquadrati sull’uscio nella tradizionale configurazione nipponica che vuole la donna un passo indietro rispetto all’uomo), segnate dal disagio mentale (la famiglia di Kyōichi), spesso monche (anche grazie alla generosa dose di suicidi che costellano la serie) e comunque anaffettive (esemplare la madre di Yukie, che si rivolge alla figlia ticchettando sul computer, in nuancecon la casa, senza mai rivolgerle lo sguardo). L’occhio del regista, apparentemente distaccato, non nasconde il suo giudizio morale quando affida al denaro la funzione di driver dei rapporti interpersonali, ritraendo la famiglia del moribondo che apriva il primo episodio (con l’investigatore del sonno incaricato di scoprirne la volontà testamentaria) o la madre di Yukie, che senza smettere di lavorare e dando le spalle alla figlia, le allunga qualche banconota.
Sul piano narrativo, il gioco di scatole cinesi, che aveva segnato il debutto del detectivedegli incubi, sembra arrivato al termine del suo sviluppo con lo svelamento del nucleo originario. Si passa da uno svolgimento di genere più classico, con il dualismo fra eroe positivo (il nightmare detective) e alter ego negativo (l’inquietante Zero), alla pressoché totale focalizzazione sul protagonista e sul suo inquietante vissuto infantile. La sostanziale inconsistenza del personaggio di Yūko, eccessivamente debitrice del clichè dell’adolescente impaurita ma crudele, accentua la centralità di Kyōichi, dichiarata sin dalla scena d’apertura del film (un flashback sulla sua infanzia – uno di quei quadri così frequenti nel cinema giapponese – con l’apparente serenità dell’interno familiare squarciata dalla follia materna) e ripresa dal primo piano sul pianto disperato del protagonista che precede i titoli di coda. Viene meno la riflessione sociologica sul suicidio come esperienza comunitaria, che nel precedente episodio rimandava a Suicide Club di Sono Sion. Logica conseguenza è l’abbandono del telefono quale messaggero di morte: l’incubo letale sta dentro di noi, non proviene dall’esterno, tanto da materializzarsi allo specchio, più volte, quando i protagonisti vi si riflettono.
Quanto al ritmo del racconto, si assiste all’abbandono dell’alternanza fra quiete e movimento che aveva caratterizzato il primo episodio (dove l’azione violenta irrompeva – anche musicalmente – nell’immobilità dell’inospitale locationmetropolitana) in favore di un andamento più lento (con il pendant recitativo della fissità di Matsuda Ryūhei) a rimarcare l’ambizione autoriale dell’incursione di Tsukamoto nel genere horror. La sceneggiatura passa per la frequente reiterazione degli elementi narrativi più oscuri (la parata degli zombie; l’hangar inondato di luce; la levitazione di Itsuko nel ricorrente incubo di Kyōichi) e sceglie una davvero insistita (e probabilmente eccessiva) compenetrazione fra realtà e (doppio) sogno, con il detective sospeso fra gli incubi del suo passato e quelli presi a prestito, in un intreccio senza soluzione di continuità (d’altra parte, vittima e carnefice hanno nomi – Yukie e Yūko – molto simili tra loro, intercambiabili). Quello che era il punto di (relativa) forza del primo episodio, ossia la capacità di sospendere lo spettatore fra spazio onirico e mondo reale, non regge però la sottolineatura e finisce per pesare sul cammino del film, che nella seconda parte diviene talmente indeciso nel procedere da far dubitare della bontà del lavoro di tessitura dello script.
Alle carenze del racconto si accompagna l’abuso dello stile. Non mancano, ovviamente, dimostrazioni del talento registico di Tsukamoto: i movimenti di macchina nella scena d’apertura, con la camera a mano, il piano sequenza che tallona la madre, le riprese che si fanno isteriche quanto la protagonista dell’azione sono davvero efficaci. Così la frequente immersione dei personaggi in un buio assoluto, il blu indaco del sogno sereno di Kyōichi bambino e del liquido in cui il detective riaffiora dai suoi incubi, soprattutto le dissolvenze visionarie fra i disegni allucinati di Yūko e fra i disegni stessi e l’immagine di Itsuko, che ci ricordano come l’opera, per quanto assai discontinua, non sia affatto banale. Probabilmente dannoso riesce, però, l’eccessivo insistere sulla shacky camera, che spesso sembra rispondere non a ragionate esigenze espressive, ma al tentativo della forma di recare sostanza a una materia debole. [Gian Piero Chieppa]
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