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Shinjuku kuroshakai – Chaina mafia sensō (新宿黒社会 チャイナ・マフィア戦争, Shinjuku Triad Society)

 *** Flashback ***
chinam-1033297Shinjuku kuroshakai – Chaina mafia sensō (新宿黒社会 チャイナ・マフィア戦争, Shinjuku Triad Society). Regia: Miike Takashi. Sceneggiatura: Fujita Ichirō. Fotografia: Imazumi Naosuke. Montaggio: Shimamura Yasushi. Scenografia: Ozeki Tatsuo. Musica: Shira Atorie. Suono: Satō Yukiya. Interpreti e personaggi: Shiina Kippei (Kiriya), Taguchi Tomorowo (Wang), Takeshi Caesar (Karino), Ōsugi Ren (il boss degli Yamane). Produzione: Ikeda Tetsuya, Kimura Toshiki, Tsuchikawa Tsutomu per Daiei – Excellent Film. Durata: 100’. Prima proiezione in Giappone: 26 agosto 1995.
Link: WikipediaItaliaValerio Spisani (Asian Feast) – Celluoid Dream – Simon Hill (Celluloid Dream) 
Punteggio ★★★   

Primo capitolo della trilogia «The Black Society» – cui seguiranno Rainy Dog (1997) e Ley Lines (1999) – Shinjuku Triad Society si ambienta nel mondo della criminalità giapponese che si annida a Kabukichō, popolare area dei divertimenti del quartiere di Shinjuku. Kiriya Tatsuhito è un agente di polizia lì di stanza, che indaga sull’omicidio di un uomo causato dai membri del clan di Wang. Pur nel loro ruolo di antagonisti, rappresentante della legge uno e criminale l’altro, i due personaggi sono accomunati dalle loro origini. Di padre giapponese e madre cinese, Kiriya, che in Cina ha trascorso parte della sua infanzia, era finito sui giornali quando, primo fra i cinesi di seconda generazione, era entrato all’Accademia di polizia. Di origine taiwanese è, invece, Wang, che lasciò il paese ancora ragazzo dopo aver ucciso il padre alcolizzato.
Già a partire dalle origini dei due protagonisti, Shinjuku Triad Societyintroduce il tema assai caro a Miike della dimensione multietnica della società giapponese e del suo sottobosco criminale. Tale dimensione contrassegna anche i rapporti del clan yakuza degli Yamane con la banda di Wang, in particolare attraverso il personaggio di Karino, che ha lasciato la banda giapponese per passare a quella cinese. I contrasti fra le due culture, che Miike e lo sceneggiatore Fujita Ichirō fanno giustamente risalire almeno ai tempi dell’invasione giapponese sul continente (vedi la conversazione fra Kiriya e il suo collega di Taipei), passano nel film attraverso diverse situazioni, in particolare tramite il gioco degli equivoci e delle incomprensioni linguistiche: Karino che viene chiamato Kaino da una ragazza cinese (con un evidente rinvio al fatto che questi ha tradito i suoi “fratelli” yakuza); Zhou che dopo aver fatto del sesso orale con Ishizaka lo saluta nella sua lingua dicendogli «Ciao cazzo piccolo», senza che questi possa comprendere il contenuto delle sue parole; i gangster giapponesi che, dopo aver detto qualcosa ai loro pari cinesi, commentano, con tipica arroganza nippo-nazionalista, «Nihongo wakaranai kara» («Tanto il giapponese non lo capiscono»). Per non dire dei ricordi di Kiriya a proposito della sua infanzia in Cina, quando, a causa del padre giapponese, lui è la sua famiglia erano stati messi a vivere in un porcile e – aggiunge – «Se c’erano dei furti era sempre colpa nostra». Parole cui possiamo contrapporre, in una logica di riequilibrio, quelle del detective di Taiwan che fa notare al protagonista come gli acquirenti del traffico illegale degli organi dei bambini cinesi siano soprattutto i giapponesi. Una serie di conflitti e asperità che narrativamente trovano il loro scioglimento nella scena in cui, dopo una serie di tentati accordi per trovare una certa convivenza, la banda di Wang, guidata proprio da Karino, sterminerà quella dei rivali yakuza, nel più classico degli scontri a fuoco tra gang.
Vale la pena di soffermarsi ancora sui due personaggi principali del film, Kiriya e Wang. Le origini cinesi del primo ne fanno inevitabilmente uno dei tanti outsider particolarmente cari al cinema di Miike. Oltre a essere impegnato nel tentativo di annientare Wang e la sua banda, l’uomo si mostra molto legato alla famiglia e nutre un profondo affetto per la madre, il padre malato e, soprattutto, per il fratello Tatsuhito che, legatosi come giovane avvocato alla banda di Wang, sarà proprio da Kiriya salvato. Anche quando è pestato a sangue ed è quasi in fin di vita, il detective sembra preoccuparsi, prima di ogni cosa, delle sorti del fratello. Ed è proprio la volontà di tutelare quest’ultimo, la causa principale della sua scelta di distruggere Wang. Lo stare dalla parte della legge contro ignobili malfattori e il pensare alle sorti dei suoi cari dovrebbero fare di Kiriya un angelo del bene, ma Miike corrompe sin da subito l’immagine positiva del personaggio nella scena in cui, arrestata Ritsuko, quando questa lo provoca chiedendogli di «scoparla», lui reagisce colpendola violentemente in faccia con una sedia, in un atto di violenza bestiale e del tutto gratuito (cosa che farà sì che la donna apparirà a lungo sullo schermo col viso fasciato e livido, in un esempio di quei volti-deturpati-specchio-di-anime-ferite così cari al cinema del regista). Ancora una volta Miike costruisce così una galleria di personaggi dove, di là dallo schierarsi da una parte o dall’altra della legge, quella che domina è una brutalità che tutti accomuna, senza lasciare alla moralità dello spettatore appiglio alcuno: la scelta non è fra il bene e il male, ma fra chi è meno bestia e chi invece lo è di più (anche se spesso nel cinema del regista l’essere bestia non è che una conseguenza del dissesto sociale in cui i suoi personaggi vivono e sono vissuti).
Antagonista di Kiriya, è il giovane Wang, brutale e violento, quanto se non ancor più del detective che lo bracca. In una scena del film in cui l’uomo si scontra con la tenitrice giapponese di un bordello di ragazze cinesi (ancora una volta un conflitto etnico), questi reagisce all’insulto della donna («Taiwanesi di merda») strappandole letteralmente un occhio dalle orbite. D’altro canto Wang appartiene alla nutrita schiera dei tipici criminali di Miike affetti da evidenti perversioni sessuali, che qui passano attraverso la sua pederastia (tratto in realtà comune ad almeno due altri personaggi del film, compreso lo yakuza giapponese Ishizaka che ha anch’egli un rapporto di sesso orale con l’adolescente Zhou, l’amante di Wang) e il suo esibizionismo (in una scena del film, Wang, in modo del tutto gratuito, apre l’impermeabile mostrando il proprio corpo nudo ai suoi allibiti interlocutori). Tuttavia Wang è un personaggio più complesso e contraddittorio di quanto non possa a prima vista sembrare, come testimoniano, fra le altre cose, il senso di colpa che lo attanaglia (e che si materializza nel sangue che imbratta le sue mani) per aver ucciso il padre, e l’evidente affetto per Zhou, tanto che l’ultimo suo gesto sarà quello, in punto di morte, di stringere la mano dell’amato.
Nel film, narrativamente costruito nella forma poliziesca dell’indagine, si ritrovano poi alcuni clichè del cinema yakuza, cui abbiamo già implicitamente fatto cenno: lo scontro fra bande (una giapponese e l’altra cinese) dopo il fallimento dei processi di mediazione; il tentativo di un nuovo venuto (Wang) di farsi largo in un sottobosco criminale dove i rapporti di potere appaiono già solidamente definiti; il tradimento, in particolare quello di Karino che non solo ha lasciato gli Yamane per passare alla banda di Wang, ma che sarà lui in prima persona a por fine alla vita dei suoi vecchi boss; l’arroganza gerarchica della yakuza stessa (come testimonia la scena in cui il boss degli Yamane pesta ripetutamente un suo sottoposto colpevole di aver riso quando non avrebbe dovuto farlo); la corruzione della polizia e dello stesso Kiriya, che vediamo intascare una somma di denaro datagli dallo yakuza Ishizaka. A tutto ciò possiamo poi aggiungere la descrizione dell’attività malavitosa della yakuza e di altre gang criminali, che ai tradizionali ambiti della prostituzione e dello spaccio di droga, aggiunge qui anche quello del traffico d’organi (provenienti da bambini cinesi poveri e destinati a bambini giapponesi ricchi).
Nei fatti uno dei momenti più interessanti del film, visivamente meno flamboyantdi altri dello stesso regista, è quello del viaggio di Kiriya a Taiwan, in visita all’ospedale aperto da Wang, come strumento e copertura del suo traffico d’organi. Le immagini di miseria, abbandono, tossicodipendenza e, in particolare, quelle delle ferite sui corpi dei bambini a cui sono stati asportati gli organi lasciano davvero il segno e appartengono a quanto di meglio Miike ci ha dato nel suo lavoro. [Dario Tomasi]
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