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Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

Guskō Budori no denki (グスコーブドリの伝記, The Life of Guskō Budori)

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Guskō Budori no denki (グスコーブドリの伝記, The Life of Guskō Budori). Regia: Sugii Gisaburo. Soggetto originale: Miyazawa Kenji. Sceneggiatura: Sugii Gisaburo. Voci e personaggi: Oguri Shun (Budori), Kutsuna Shiori (Neri, la sorella), Emoto Akira (il dottor Kubo), Sasaki Kuranosuke (Kotori), Kusakari Tamiyo (la madre di Budori), Hayashi Ryūzō (il padre di Budori). Musiche originali: Komatsu Ryōta. Animazione: Tezuka Production. Distribuzione: Warner Brothers. Durata: 108′. Uscita nelle sale giapponesi: 7 luglio 2012. 

Punteggio ★★★


Il giovane Gusukō Budori vive tranquillamente con i due genitori e la piccola sorella nella foresta di Ihatobu. Un giorno però un forte cambiamento atmosferico porta un’improvvisa ondata di freddo che sembra non finire mai. La piccola comunità in cui i quattro vivono si regge principalmente sul lavoro agricolo e finisce quindi col collassare. Padre e madre disperati per l’assenza di cibo, si recano in un’ultimo tentativo nella foresta. Non faranno più ritorno a casa , lasciando i due bambini da soli. Budori, con il suo atteggiamento ottimista, cerca di rassicurare la sorellina, ma un giorno anche lei viene portata via dalla morte. Inizia così il vagabondare del nostro protagonista che lo porterà infine a lavorare in un laboratorio dove vengono studiate le eruzioni vulcaniche. Un giorno un grande vulcano sembra risvegliarsi e Budori ha un’idea su come salvare tutta la zona dal freddo.

Sono passati ormai quasi ottant’anni dalla morte del poeta, scrittore e attivista giapponese di ispirazione buddista Miyazawa Kenji, uno degli esempi più lucenti del fervore artistico che ha illuminato un periodo sanguinoso come quello a cavallo del diciannovesimo e ventesimo secolo. Eppure la sua opera, impegnata ma soprattutto graziata da un tocco poetico capace di traversare le barriere linguistiche, continua in Giappone ad essere studiata e letta da grandi e piccoli, molta della sua produzione essendo infatti composta da fiabe per bambini. Come le sue idee sull’agricoltura, sulla tecnica, sul posto dell’uomo nell’universo, moderniste ma influenzate dal sutra buddista del Loto, continuino ad influenzare artisti nei campi più disparati, lo si può notare anche nel cinema. Non solo abbiamo avuto negli ultimi trentanni dei lungometraggi animati di fattezza e grado poetico elevato – Night on the Galactic Railroad nel 1985 e Spring and Chaos nel 1996 – tratte direttamente dalle sue opere ma anche film intrisi della sua sua visione del mondo. A questo proposito viene in mente il recente Monsters Club di Toyoda Toshiaki. 
Il grande animatore Sugii Gisaburō, già regista del citato  Night on the Galactic Railroad  torna con questo The Life of Guskō Budori al mondo di Miyazawa, ancora una volta reso con protagonisti felini antropomorfi. I primi venti minuti ci presentano la vita tranquilla e idilliaca della famiglia Giskō, il padre lavora nel bosco, la madre a casa, il ragazzo che aiuta, insomma il tipico inizio di fiaba. L’improvviso cambiamento climatico però, un inspiegabile freddo che distruggerà l’equilibrio uomo-natura su cui si basa la vita della comunità, dà il via alla fine del focolare domestico. Il padre e la madre senza più niente da dare da mangiare ai figli sono come risucchiati dalla foresta e la piccola sorellina Nero viene portata via da un inquietante personaggio, probabilmente la rappresentazione simbolica della morte. Interessante è notare come il mutamento climatico non sia dettato da un agire umano, come spesso avviene in Miyazaki, ma sia insito nella natura e nell’universo. Ecco allora che la tecnica è vissuta prima di tutto, ricordiamo che la fiaba fu scritta nel 1932, come strumento per compensare gehlenianamente la debolezza umana nei confronti del cosmo. 
La storia che si dipana davanti ai nostri occhi è spesso intervallata da momenti onirici/poetici, quasi allucinazioni di stampo hamsuniano dettate dalla fame del giovane Budori. Il confine è spesso labile, però, e se la narrazione procede abbastanza linearmente con il peregrinare e gli incontri del ragazzo-gatto, lo spettatore non è mai troppo sicuro se ciò che sta vedendo sia la proiezione della fantasia del giovane o la realtà dei fatti. Ovvero, la distinzione è abbastanza netta narrativamente ma lo stile dell’animazione (ricordiamolo ancora una volta, i protagonisti sono tutti gatti antropomorfi) tende a confondere anche in virtù della caratterizzazione del protagonista, ottimista, quasi sempre in preda ad una sorta di “stupore infantile”. All’animazione tradizionale, caratterizzata da un uso prevalente dei colori caldi, si intrecciano delle parti realizzate alla CG, soprattutto all’arrivo di Budori nella città dove si fermerà. In uno stile retrò quasi steampunk, l’agglomerato cittadino è rappresentato come un grande meccanismo a orologeria, senza però nessuna accezione negativa che caratterizza molti lungometraggi, da Metropolis in avanti. La fusione della tecnica e dell’agricoltura, dove quest’ultima è una sineddoche per tutta la sfera dell’agire umano, realizzata attraverso uno stile allucinatorio-poetico che tende all’universale, è una delle caratteristiche principali delle fiabe di Miyazawa. Sugii riesce a trasporre abbastanza bene questo connubio, mai gratuito e fine a se stesso ma che si colloca in un quadro filosofico ben più generale: la compassione e la concretezza delle scelte quotidiane espresse nel Sutra del Loto, sono l’elemento che più salta agli occhi. Il finale, che qui non riveleremo, è in questo senso il suggello di questo pensiero e la dimostrazione dell’originalità di Miyazawa e della bravura di Sugii e dei suoi collaboratori nel creare un’opera ondivaga sì, di difficile classificazione ma forse per questo più che mai stimolante. [Matteo Boscarol]

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