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Ōkami kodomo no Ame to Yuki (おおかみこどもの雨と雪 , Wolf children)

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Ōkami kodomo no Ame to Yuki (おおかみこどもの雨と雪 , Wolf children). Regia e soggetto: Hosoda Mamoru. Sceneggiatura: Hosoda Mamoru, Okudera Satoko. Montaggio: Nishiyama Shigeru. Musica: Takagi Masakatsu. Durata: 117 minuti. Uscita in Giappone: 21 luglio 2012.
Link: Sito ufficialeCatherine Munroe-Hotes (Nishikata Film Review)

Hana, una giovane universitaria timida e impacciata, si innamora di un misterioso e solitario ragazzo conosciuto in aula. I due iniziano a frequentarsi, fino a quando lui, altrettanto certo dei suoi sentimenti, decide di confessarle il proprio terribile segreto: è in realtà un uomo-lupo, discendente diretto dell’ormai estinta famiglia dei lupi giapponesi. Nonostante la sconcertante rivelazione, Hana continua a stare insieme a lui e negli anni successivi partorisce prima la piccola Yuki (in giapponese: neve – perché nata in una giornata nevosa) e poi il fratellino Ame (in giapponese: pioggia – perché nato durante un acquazzone). La coppia cresce i figli con amore fino a quando, un giorno, il giovane padre scompare improvvisamente. L’inaspettata morte del compagno, accertata poco dopo, ma soprattutto la capacità dei piccoli di trasformarsi in lupo a loro piacimento, costringe la povera ragazza a crescere da sola i figli e a ritirarsi in campagna, lontano dagli occhi indiscreti della gente.
Con Wolf Children, Hosoda Mamoru torna alla regia sette anni dopo il celebre La ragazza che saltava nel tempo (Toki wo kakeru shōjo, 2006) e quattro anni dopo il capolavoro Summer Wars (Samā Wōzu, 2009), apponendo forse la tessera definitiva a completamento del percorso in direzione di quella che sta diventando la sua cifra stilistica e autoriale. Wolf Chidren, infatti, è sì un film fantastico, ma esattamente come i due precedenti lavori del regista, individua nelle parentesi soprannaturali e folkloristiche uno specchietto per le allodole che gli consente di procedere in una direzione narrativa differente e più defilata. Hosoda sembra, infatti, spinto dalla volontà di descrivere il più possibile la dimensione umana dei suoi personaggi, inserita nelle dinamiche di una quotidianità che finisce con esaltarne splendidamente la verosimiglianza – e nelle quali la dimensione del fantastico assume quindi il ruolo di catalizzatore dei fenomeni. 
Al centro dei film di Hosoda spiccano protagonisti che dimostrano di avere sostanziali difficoltà sia nell’affrontare il mondo che li circonda, sia nell’instaurare dei rapporti umani con gli altri personaggi. Il primo istinto che li guida è, infatti, quello di fuggire, di staccarsi da quella realtà che non comprendono e della quale non si sentono di far parte – come Hana, che fugge dalle luci invadenti della città, rifugiandosi in campagna per paura che la gente scopra la verità sui suoi figli per poi discriminarli. A questo punto emerge il marchio del regista, nel momento in cui costringe i propri personaggi a non arrendersi, spingendoli in qualche modo ad affrontare la realtà di petto. 
L’elemento fantastico, in questo caso, gioca un ruolo fondamentale, divenendo una sorta di catalizzatore “inverso” che mette i protagonisti nella condizione di non potersi più tirare indietro. Hana è chiamata a fare i conti con due realtà forti dalle quali si era inizialmente allontanata, sia fisicamente che mentalmente: 1) Il contatto con gli altri esseri umani, ovvero ciò da cui era fuggita lasciando la città, ma che invece non potrà impedire una volta giunta nel piccolo paesino di campagna. 2) La maturità dei figli: il profondo desiderio di Yuki di riuscire ad essere “come tutti gli altri” e quindi di riuscire ad inserirsi perfettamente nella società, quasi cercando di dimenticare la sua componente animalesca, e la spinta indipendente di Ame, che, invece, vuole tuffarsi definitivamente in quel mondo naturale al quale sente di appartenere, dimenticandosi della sua componente umana. Il fantastico diventa quindi il mezzo attraverso cui il reale viene a bussare alla porta dei protagonisti, costringendoli ad uscire dai loro involucri protettivi.
Sebbene in linea con la struttura dei film precedenti, Wolf Children spicca per la delicatezza con la quale il regista mette in scena la vicenda. Una delicatezza riscontrabile non solo nei ritmi narrativi e nella morbidezza dei dialoghi, ma anche a livello estetico, grazie soprattutto ai colori tenui e al tratto delicato di Sadamoto Yoshiyuki, capace di materializzare – e in questo caso anche di rievocare – quel senso di “sorridente tristezza” che aveva contraddistinto l’altra sua grande creatura, Evangelion, il mecha anime più controverso di sempre. [Giorgio Mazzola]

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