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Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

Iki wo koroshite (息を殺して, Hold Your Breath Like a Lover)

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Iki wo koroshite (息を殺して, Hold Your Breath Like a Lover).   Regia e sceneggiatura: Igarashi Kōhei. Fotografia: Takahashi Wataru. Montaggio: Jiang Yunhua. Musica: Namura Kentarō. Interpreti: Taniguchi Ran, Inaba Yūsuke, Mine Goichi, Adachi Tomomitsu, Inagaki Yūki, Harada Kōji, Tanaka Rina, Arai Han. Durata: 85′. Anno 2014. World Premiere: Locarno International Film Festival 2014.
Link: Trailer (Vimeo) – Diego Garufi (everyeye.it) – Raffaele Meale (Quinlan) 
Punteggio ★★★★

Quando si inizia a guardare un “film da festival”, talvolta non si capisce se stiamo assistendo a un’opera di genio che non riusciamo a comprendere. Poi, con il passare dei minuti, le cose si chiariscono e spesso ci si rende conto di trovarsi di fronte a una realizzazione debole e confusa che chissà perché è piaciuta a qualche selezionatore (sempre di festival). È questo il caso anche di Hold Your Breath Like a Lover, opera seconda del trentenne Igarashi Kōhei, saggio di fine corso prodotto dalla Graduate School Film and New Media della Tokyo University of Arts,  dove Igarashi si è diplomato.

Siamo al 30 dicembre 2017. A poca distanza dalle Olimpiadi di Tokyo 2020, viene riformata la Costituzione e creata una Forza di Difesa Nazionale che inizia le sue operazioni militari. In un impianto di incenerimento i dipendenti passano gli ultimi giorni dell’anno tra lavoro e vicende personali. Tani vorrebbe chiudere una relazione clandestina con un collega, Adachi, e sposarsi per fare una famiglia; Yanais cambia le decorazioni natalizie con quelle del nuovo anno; Gou passa il tempo con il pallino dei giochi di sopravvivenza e viene all’impianto anche nel suo giorno libero per giocare ai videogames con Ken. Tutti cercano un cane che sembra non trovarsi. A tutto ciò si aggiunge la sensazione della presenza di persone perdute: il padre di Tani, in passato direttore dell’impianto, e un collega-amico scomparso in guerra.  
Tutti questi personaggi, che condividono analoghi problemi della vita (adulterio, figli in arrivo, problemi famigliari, un lutto), si muovono sulla scena con fare ispirato, spesso immersi in una tensione che non ci è dato sapere, forse il peso del vivere. Più che camminare incedono. Pronunciano frasi rarefatte che tagliano silenzi densi di presunto significato. Escono sotto la pioggia ma non prendono uno dei tanti ombrelli dall’ombrelliera. E, a coronamento del tutto, il cane scomparso si chiama Nessuno. Insomma, un vero e proprio catalogo delle ovvietà “d’autore”.
La cosa che più mi ha colpito in questa maldestra e bislacca esercitazione di diploma non è tanto la retoricità dei gesti  (un esempio per tutti: una donna piange; un uomo entra nella stanza, solleva la mano e camminando “porta” la mano fino al volto di lei per accarezzarla) o lo stile didascalico che diventa banalità (altro esempio: la lunga, interminabile passeggiata finale che finisce con una dissolvenza in bianco), quanto per la totale inconsapevolezza del regista di come vi sia uno iato incolmabile tra le premesse della storia annunciate a tavolino all’inizio (la svolta militare prossima ventura, le vite senza futuro) e l’effettivo svolgimento della vicenda. E non basta che il riferimento alla possibile minaccia di un futuro prossimo di un Giappone destrorso e nazionalista abbia un fondamento di verità nei comportamenti del premier Abe. Ciò che conta è che quel che vediamo sulla scena potrebbe accadere in ogni luogo e in ogni tempo, anzi lo abbiamo già visto tante volte, non ci comunica nulla. Lo stesso inceneritore, fin troppo emblematico di un “non luogo”, in realtà non esplicita mai la peculiarità della scelta. Così la storia effettivamente narrata è priva di dinamica e di drammaticità, i personaggi non sono portatori di nulla. Persino il titolo, che nell’originale suona come “Trattenendo il fiato”(per il fatto di vivere in un mondo senza futuro, sic!) e che nella versione da festival diventa pomposamente “Trattieni il fiato come un amante”, a ben vedere il regista poteva risparmiarcelo.
Ciò su cui il film induce a riflettere esula invece dalla storia (non) narrata e attiene piuttosto alla concezione stessa del film.  In questo, esso è emblematico di una tendenza cinematografica, e non solo, secondo cui ormai è passato di moda narrare una storia in maniera compiuta. Non c’è più la storia ma ci sono solo le sensazioni, le ceneri dell’essere. È un modo di pensare e di esprimersi connesso a una percezione della realtà dovuta sempre più a esperienze virtuali frammentate (le molteplici forme della rete), dove alle esperienze reali si vanno sostituendo le percezioni di esse.  [Franco Picollo]


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