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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

PERFECT DAYS (Id., WIM WENDERS, 2023)

SPECIALE YAKUSHO KŌJI

di Valerio Costanzia

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A circa quarant’anni da Tokyo-Ga (1985), Wim Wenders torna nella capitale nipponica per raccontare, a modo suo, il progetto “The Tokyo Toilet”, sostenuto dalla Nippon Foundation, che ha avuto l’obiettivo di chiamare a raccolta grandi archistar per progettare una serie di servizi igienici nella zona di Shibuya, uno dei quartieri più noti e “cinematografati” della Tokyo high-tech contemporanea. Invitato dall’amministrazione di Shibuya a realizzare un documentario su questo progetto, Wenders ha creato un film a soggetto, un atto d’amore per questa città e per la cultura giapponese che il regista tedesco ha esplicitato più volte, non solo con il citato Tokyo-Ga ma anche in Appunti di viaggio su moda e città (1989) dedicato allo stilista giapponese Yamamoto Yohji. Yakusho Kōji, protagonista del film nel ruolo di Hirayama, ha ricevuto il Premio per la Miglior Interpretazione Maschile al Festival di Cannes del 2023.

Hirayama è un addetto alle pulizie di alcuni servizi pubblici del quartiere di Shibuya di Tokyo. Le sue giornate scorrono uguali, una dopo l’altra, scandite da piccole azioni: svegliarsi, mettere a posto il futon e il libro della sera prima, scendere le scale, lavarsi i denti e aggiustarsi i baffetti, spruzzare con l’acqua le pianticelle, vestirsi con la tuta dal lavoro – sulla cui schiena campeggia la scritta The Tokyo Toilet – prendere gli oggetti dalla mensola, uscire di casa gettando uno sguardo pieno di riconoscenza al cielo, prendere una lattina di caffè dal dispenser, entrare nel furgone, scegliere un’audiocassetta, avviarsi sul posto di lavoro sotto lo sguardo della Tokyo Sky Tree, svolgere scrupolosamente la sua mansione, fare pausa pranzo con un sandwich in un piccolo parco, scattare una foto alle fronde degli alberi, terminare la giornata di lavoro, tornare a casa, uscire in bicicletta e andare a lavarsi in un bagno pubblico, cenare velocemente in un bar della metropolitana, tornare a casa, mettersi a letto, leggere, sognare.

“Adesso è adesso, la prossima volta è la prossima volta”. Ecco, la recensione del film di Wenders potrebbe chiudersi qui, assieme alla didascalia finale che, temiamo, nessuno avrà modo di leggere perché collocata dopo i titoli di coda. Su quest’ultima inquadratura, che riproduce il baluginio della luce del sole tra le foglie, Wenders spiega il significato della parola Komorebi: “Is the japanese word for the shimmering of light and shadows that is created by the leaves swaying in the wind. It only exists once, at that moment.” 

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Komorebi indica quindi un attimo fugace, quasi impossibile da catturare, una luccizanza che non è la preveggenza dello shining, legata al tempo futuro, a ciò che accadrà, nel bene e nel male, ma al presente, a ciò che succede adesso, nell’istante stesso segnato dallo scintillio della luce che filtra tra le foglie degli alberi e che l’occhio può solo cercare di catturare in un “tempo piccolo”.   

Perfect Days è la descrizione di questi attimi nei quali Wenders – mettendo insieme momenti diversi senza preoccuparsi minimamente di dover rispondere alle regole drammaturgiche dello storytelling (qual è il passato di Hirayama?) – cerca di instillare nel quotidiano, volutamente descritto come una serie di azioni che si ripetono sempre uguali, degli sprazzi fugaci di luce. È questa luce che guida letteralmente Hirayama sia nella veglia – quando al mattino volge lo sguardo al cielo oppure durante la pausa pranzo, quando fotografa le fronde – sia nel sonno in cui la luce pulsa, nella sua forma più genuina e cristallina, sotto forma di immagini oniriche in bianco e nero, stratificate da dissolvenze e sovrimpressioni, “immagini-tempo” verrebbe da chiamarle ricorrendo a Gilles Deleuze. 

D’altra parte, non è un mistero che il concetto di tempo, ben più dello spazio e della dimensione on the road del viaggio, sia strettamente connesso al cinema di Wenders, i suoi titoli sono lì a ricordarcelo (Estate in città, Nel corso del tempo, Lo stato delle cose, Fino alla fine del mondo e ovviamente Perfect Days), un tempo autentico, non scandito da strumenti creati dall’uomo per misurarlo. Dalla mensola collocata al termine delle scale, prima di uscire, Hirayama non prende mai l’orologio, tranne nei giorni in cui non lavora e la ritualità del quotidiano si interrompe. Il tempo festivo sembra quindi un tempo non autentico, una pausa nella quale cercare di rimettere in ordine le cose: ecco allora l’esercizio di riavvolgere con la matita i nastri delle audiocassette, il ritiro delle fotografie sviluppate e la consegna del rullino da sviluppare, la scelta delle foto scattate da tenere o da buttare, l’archiviazione di quelle che hanno passato il vaglio nelle scatole di metallo, accuratamente suddivise mese per mese. 

Hirayama conserva le foto sulle quali è impressionato il Komorebi (ma abbiamo visto che esso è, per definizione, non impressionabile poiché è il metro di misura della caducità: “adesso è adesso, la prossima volta è la prossima volta”). 

Se volessimo tirare le fila del tempo, potremmo quindi definire tre status temporali in Perfect Days:

– il tempo autentico quotidiano vissuto giorno dopo giorno attraverso il lavoro che Hirayama svolge, un tempo sospeso, che non ha bisogno di lancette e orologi per essere misurato. È un tempo interiore, circadiano, governato dalla luce e dall’oscurità, dai ritmi naturali (mangiare, bere, lavorare, bagnare le piante, leggere…);

– il tempo autentico onirico che è quello dei sogni in cui la verità sembra voler emergere come luce filtrante dalle immagini cristalline. È un tempo che contiene presente e passato: in alcune delle sequenze oniriche si scorge la mano di un adulto e quella di un bambino, in altri la figura di un anziano, falde di passato che tentano di inserirsi nel presente;

– il tempo inautentico che è quello governato dall’orologio, costituito da azioni che sono delle eccezioni alla routine quotidiana, o se vogliamo, che fanno parte di una routine di “secondo grado”. Il tempo inautentico richiede di essere continuamente colmato per non essere sopraffatto dalla noia, un tempo che ha bisogno di essere fissato nell’immagine analogica delle fotografie e che, all’occorrenza, può essere scartato, stracciato. 

A volte il tempo autentico del quotidiano viene turbato da eventi che esulano dalla routine: è il caso delle dimissioni di Takashi che gettano nello sconforto Hirayama. L’assenza di Takashi sconvolge il ritmo circadiano, le ore di lavoro si dilatano, tutto ciò si ripercuote su Hirayama che, per la prima volta, perde la sua serena accettazione delle cose quotidiane. Questo corto circuito fa sì che il protagonista si senta demotivato nel compiere alcune mansioni come, per esempio, la selezione delle fotografie. Non è un caso, quindi, che l’inquietudine provata da Hirayama venga mitigata dalla libraia: la scelta cade su un romanzo di Patricia Highsmith, autrice di culto per Wenders, perché, come sottolinea la libraia, l’autrice americana “ha saputo mostrare bene come ansia e paura non siano la stessa cosa”. 

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“Sometimes I feel so happy / Sometimes I feel so sad”, Pale Blue Eyes, Lou Reed

Naturalmente Wenders in Perfect Days non si “dimentica” di Ozu, qui e là gli omaggi al maestro spuntano tra le pieghe del racconto, ma è un ritorno diverso rispetto a quello di quarant’anni fa quando si recava in “pellegrinaggio” nel paese del Sol Levante per verificare quanto fosse rimasto di Ozu e del suo lavoro, quanto fosse cambiata Tokyo a vent’anni dalla sua scomparsa. In Tokyo-Ga Wenders era alle prese con una verifica (incerta) sulla retorica stilistica del maestro; le sue erano preoccupazioni legate allo spazio filmico (il 50 mm, la collocazione della mpd ad altezza tatami) e alla rappresentazione della realtà (“vedere le persone o le cose che si mostrano come sono veramente… la cosa veramente eccezionale nei film di Ozu, soprattutto negli ultimi, era vedere questi momenti di verità”). Le stesse preoccupazioni attraversano un altro “pellegrino” e viandante, Werner Herzog, quando, in cima alla Tokyo Tower (in Perfect Days sostituita dalla Tokyo Sky Tree) lamenta la saturazione dello spazio a causa degli edifici: non ci sono più immagini, restano poche immagini filmabili (“abbiamo assolutamente bisogno di immagini che si armonizzino con la nostra civiltà” sostiene Herzog). 

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Movimenti all’unisono e pose parallele

In Perfect Days la riflessione è invece sul tempo e sull’autenticità del presente, sullo sfarfallio della luce tra le foglie. Sappiamo quanto lo sfarfallio sia costitutivo della proiezione cinematografica analogica, e Perfect Days è cinema “analogico”, a partire dal formato classico; Hirayama stesso è espressione di un mondo analogico con la sua Olympus, i suoi rullini, i libri cartacei, le audiocassette, il gioco del tris, le ombre da calpestare… ma che importa, perché adesso è adesso, la prossima volta è la prossima volta. 

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“It’s a new dawn / It’s a new day / It’s a new life / For me / And I’m feeling good”, Feeling Good, Nina Simone


regia: Wim Wenders; sceneggiatura: Wim Wenders, Takashi Takuma; fotografia: Franz Lustig; montaggio: Toni Froschhammer; scenografia: Kuwajima Towako; interpreti: Yakusho Kōji (Hirayama), Takashi (Emoto Tokio), Nakano Arisa (Niko), Yamada Aoi (Aya), Asō Yumi (Keiko), Ishikawa Sayuri (Mama), Miura Tomozaki (Tomoyama), Tanaka Mon (homeless); produzione: Master Mind in collaborazione con Wenders Images; durata: 123’; prima: 25 maggio 2023 (Cannes Film Festival); uscita in Giappone: 22 dicembre 2023; uscita in Italia: 4 gennaio 2024;

 

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