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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

IL GUSTO DEL SAKÈ (Sanma no aji, OZU Yasujirō, 1962)

SPECIALE OZU YASUJIRŌ

di Marcella Leonardi

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Il “film della fine”, su cui si stende la coltre malinconica della morte della madre di Ozu, che lascia il regista in uno stato di profonda tristezza. Tornando dal suo funerale nel febbraio del 1962, il periodo in cui era al lavoro con Noda alla sceneggiatura del film, Ozu scrisse nel suo diario: “Giù in pianura è piena primavera, nuvole luminose di ciliegi in fiore. Ora sono qua assente, in difficoltà per Sanma no aji. I fiori di ciliegio mi immalinconiscono come se fossero abiti logori, il sakè è amaro come se fosse genziana.” ¹

Il vedovo Hirayama Shōhei, dirigente d’azienda ed ex ufficiale di marina, vive insieme alla figlia Michiko, che si occupa delle faccende domestiche, e al figlio più giovane Kazuo. In un appartamento poco distante abita il primogenito Kōichi, sposato con Akiko. Assieme agli amici Kawai e Horei, Hirayama si ritrova a bere con un vecchio insegnante, Sakuma. Dopo molti bicchieri di sakè, Sakuma confessa di aver condannato sua figlia Tomoko all’infelicità, impedendole di sposarsi e trattenendola con sé. La discussione convince Hirayama a dare in sposa Michiko, per evitare che faccia la triste fine di Tomoko. 

Sanma no aji è il film del crepuscolo non solo per il risultato formale, che giunge a una stilizzazione metafisica e ideale di assoluta unicità; ma anche per l’interpretazione di Ryū Chishū, che conferisce al film un sapore autunnale, di scoloramento fisico, come se la sua corporeità fosse sempre più trasparente e spirituale. Il suo Hirayama vive e lavora, trascorre molto tempo con gli amici Kawai e Horie; ma i gesti lenti (che paiono ormai aver assunto una dimensione rituale) e il sorriso segnato da profondissima malinconia lo rendono  fantasmatico, proiettato in un altrove che lo distacca dalle cose. Nella sua ironia gentile, nel tipico annuire silenzioso, custodisce una densità emozionale che ci rimane in parte sconosciuta. (fig.1)

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1.

Agli inizi degli anni ’60 la società è in trasformazione: la vita vivace dei quartieri, le coppie giovani alle prese con i nuovi elettrodomestici prendono il posto degli anziani e della tradizione, cui non resta che bere o trovarsi una moglie giovane per ingannare la vertigine del tempo. I valori morali del passato sono travolti da una modernità che implica rapporti umani sempre più disinvolti e desideri consumistici. Hirayama si muove come un corpo estraneo in questa Tokyo di luci al neon, palazzi di cemento e ciminiere (cui Ozu dedica frequenti pillow shots). Con la sua educazione impacciata e un’eleganza d’altri tempi, trova ospitalità in un bar anonimo la cui bella proprietaria (Kishida Kyōko di La donna di sabbia) reca nei suoi lineamenti gentili la memoria della moglie scomparsa. Ed è proprio in questo bar che si svolge una delle scene più celebri e struggenti: Hirayama ascolta la Gunkan māchi, la marcia ufficiale della Marina Imperiale – un brano molto popolare bandito negli anni dell’occupazione americana – assieme a un ex commilitone (interpretato con calore e vitalità da Katō Daisuke). I due mimano il saluto militare e l’atmosfera si colora di una nostalgia indicibile; la ricerca di un “tempo perduto” e la condanna dell’assurdità della guerra pervadono il piccolo spazio del locale, nonostante i sorrisi e le battute. (fig. 2)

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2.

La materia di Sanma no aji – la solitudine, il ricordo, la sensazione di una vita trascorsa senza recare con sé una pienezza di senso, tra eventi tragici e sconfitte personali – viene affrontata da Ozu con la lucidità di uno stile giunto alla sua perfezione e capace di conciliare gli opposti. La composizione dell’inquadratura racchiude un’armonia che si potrebbe dire iniziatica, data dallo studio delle linee, dalla disposizione degli elementi, dallo studio dei colori caldi  – ravvivati dalla presenza di rossi e azzurri – e dagli aspetti grafici di tende e porte scorrevoli. Sui tavoli troviamo una quantità di bottiglie di sakè, vasi, ciotole, bicchieri, disposti con cura meticolosa. Frequente è l’uso ludico della metonimia (ad esempio, sette amici cui corrispondono sette bottiglie di birra). La stratificazione è in profondità: Ozu fa vivere il film nel rapporto 4:3 senza preoccuparsi di ciò che accade fuori campo. Tutto è dato allo spettatore all’interno della cornice dell’inquadratura. (fig. 3)

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3.

Ozu segmenta con maestria le scene, mediante un montaggio di inquadrature fisse ma nondimeno piene di vita e di gesti rispettati nella loro continuità. I personaggi, centralizzati e in (mezzo) primo piano, creano il più profondo coinvolgimento con il pubblico, attraverso i tipici ed intensi sguardi in macchina che ci trascinano “dentro” il dialogo. La pragmatica disinvoltura di Kawai, la simpatia da donnaiolo stropicciato di Horie e la disperazione di Sakuma racchiudono un nucleo di verità di cui ci fa dono Ozu, rendendoci partecipi della trasparenza dei loro occhi.

I corridoi sono spazi di luce e colore, attraversati da presenze umane svelte e passeggere: che sia l’impiegata dell’ufficio o il passante nel vicolo illuminato da insegne colorate, l’apparizione di una figura in movimento è l’emblema della transitorietà nei luoghi del vivere, dove tutto scorre e si trasforma (fig. 4 e 5). L’alternanza di pieno e vuoto è da sempre un segno distintivo del cinema di Ozu, la rappresentazione visiva di un’assenza, dell’impossibilità di fermare il tempo e le persone che lo abitano. Vuoto come fine, ma anche pagina bianca su cui continua a scriversi la vita.

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4.

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5.

Importante anche sottolineare le differenze tra Sanma no aji e Banshun (1949), sebbene presentino lo stesso scheletro narrativo e similarità di tematica. Il rapporto tra Michiko e Hirayama non ha più quella corrispondenza d’amorosi sensi quasi morbosi che legavano Noriko al padre Somiya. Hirayama ha una vita sociale e indulge al vizio del bere, padre e figlia trascorrono poco tempo insieme, le conversazioni sono scarne ed essenziali. L’unica intimità cui ci è concesso di assistere è il commovente quanto breve momento del “pianto di Michiko”: seduta di spalle, la ragazza si volta lentamente rivelando al padre, in un rapido bagliore, il viso bagnato di pianto (6). Triste ma radiosa, Michiko è colma di luce mentre Hirayama è in piedi, il corpo in penombra. Il dialogo, veloce e con un solo scambio di sguardo, è tra due creature appartenenti a due piani temporali: autunno e primavera, passato che scolora e futuro in germoglio.

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Michiko è una delle ragazze più enigmatiche della cinematografia di Ozu: di lei sappiamo poco, ma indubbiamente è quella rosa cui ambiva il suo cinema. Con la sua giovinezza pulita, bellissima nel kimono che indossa per le commissioni e ancora più bella nell’abito nuziale, Michiko è reticente ma piena di passioni e sentimenti. È un personaggio di cui ci è dato immaginare, intuire, mentre l’attenzione del regista è rivolta alla figura paterna.

Aleggia la morte in ogni inquadratura: “È stato a un funerale?” chiede la barista quando vede Hirayama agghindato dopo la cerimonia nuziale. “Più o meno”, risponde lui. Ozu non rinuncia alla commedia in un film che vede l’alcol come ultimo rifugio e consolazione in un’esistenza di disillusioni. Nella scena finale, quando Hirayama, ubriaco, dice “adesso sono solo”, sentiamo davvero il mondo crollarci addosso. Le inquadrature che seguono, di interni vuoti, sono tra le più tristi ed emblematiche del ‘900. Ozu morirà un anno dopo.

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Titolo originale: 秋刀魚の味  Sanma no aji; regia: Ozu Yasujirō; sceneggiatura: Ozu Yasujirō e Noda Kōgo; fotografia: Atsuta Yūharu; musica: Saitō Ichirō; Interpreti e personaggi: Iwashita Shima (Hirayama Michiko), Ryō Chishō (Hirayama Shōhei), Sata Keiji (Kōichi), Okada Mariko (Akiko), Mikami Shun’ichirō (Kazuo), Yoshida Teruo (Miura Yutaka), Maki Noriko (Taguchi Fusaku), Nakamura Nobuo (Kawai Shūzo), Miyake Kuniko (Nobuko), Tono Eijirō (professor Sakuma), Sugimura Haruko (Tomoko). produzione: Shōchiku; durata: 113’; prima uscita in Giappone: 18 novembre 1962.

Note

¹ Franco Picollo e Hiromi Yagi (a cura di), Yasujirō Ozu. Scritti sul cinema, Roma, Donzelli, p. 126.

 

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