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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

SUMO DO, SUMO DON’T (Shiko funjatta, SUO Masayuki, 1992)

Far East Film Festival 26

24 aprile – 2 maggio 2024 

di Marcella Leonardi

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“I lottatori sono giganti rosa, come gli affreschi di una celebre cattedrale”. Con la delicata sensibilità che lo contraddistingue – anche quando affronta una commedia sportiva dai tratti slapstick come Sumo do, Sumo don’t –  il regista Suo Masayuki apre il film con una citazione poetica: i versi che Jean Cocteau dedicò al sumo durante uno dei suoi viaggi in Giappone. Magneticamente attratto dalle anomalie di uno sport come il sumo, l’artista francese ne cantò la bizzarra sensualità e le contraddizioni, evidenziando l’innocenza dei corpi su cui si ergono volti da bambini.

Uno studente dell’ultimo anno del college, Shuhei, viene ricattato da un professore affinché si unisca al moribondo club di sumo della scuola, in cambio di crediti per il diploma. A Shuhei si unisce un gruppo di disadattati (uno studente fuori corso, un nerd senza amici, una ragazza sovrappeso e un “gaijin” ex giocatore di rugby) in un’avventura che li porterà a sconfiggere i rivali, salvare la squadra e trovare la loro vera passione e autostima.  

Opera del 1992, che per struttura narrativa e dinamiche anticipa i formidabili equilibri di Shall we dance (1996), Sumo do, Sumo don’t si concentra proprio sull’innocenza cantata da Cocteau: la vulnerabilità dei corpi e la ricerca dell’equilibrio all’interno dell’anello di combattimento (dohyō), simbolo della vita. Il Sumo, messo in scena con amore particolare, non è solo il pretesto per una serie di irresistibili gag corporali, ma una lente d’ingrandimento per osservare meglio gli esseri umani e magnificare quell’umanesimo che è alla radice del cinema del regista. Le prove sportive diventano prove esistenziali, e gli incontri nel dohyō (che Suo accarezza con sinuosi movimenti di macchina, abbracciandone la forma circolare) si susseguono come tappe di un racconto di formazione collettivo.
Inetti o privi di fiducia in se stessi, i protagonisti hanno i tratti archetipici del genere “rivincita degli antieroi”, ma Suo evita di trasformarli in stereotipi con la sua naturale propensione all’osservazione psicologica di ogni minima variazione emotiva. Il regista ama i suoi personaggi e usa la macchina da presa per affiancarli nella lotta, tra cadute, impatti, sudore. Se in Shall we dance la regia “danzava” letteralmente, attraversando lo spazio con leggiadria e staccandosi da terra con la levità del ballo, in Sumo do, Sumo don’t l’azione procede attraverso brusche “spintonature” e stacchi di montaggio netti. L’immagine sobbalza e ansima, registra l’impatto delle carni e si fa carico del loro peso come della loro gloria.

Un vero e proprio elogio del corpo – imperfetto, “sbagliato”, fuori posto: chi è troppo magro, chi basso, chi divorato dall’emotività, fino allo scandalo di un corpo femminile su un ring tradizionalmente vietato alle donne. E sebbene Suo in questa commedia prediliga toni più “bassi” e una comicità fisica e gestuale (viene difatti del tutto a mancare quella vulnerabilità malinconica che Shall we dance consegnava al personaggio di Yakusho Kōji), la mano del regista è sempre rispettosa dei suoi fragili protagonisti. Regista di “tocchi” gentili, di dettagli che vanno ad arricchire il quadro composito di personalità in tumulto e trasformazione, Suo offre il suo sguardo affettuoso a un’umanità che si getta al di là del limite con tutta la goffaggine di un corpo inadeguato, ma colmo di desiderio. L’ultima, luminosa inquadratura del film è la risultante di questa tensione, con il sentimento amoroso (elusivo per tutto il film) finalmente pronto ad affacciarsi all’interno del dohyō.


Titolo originale: シコふんじゃった; regia e sceneggiatura: Suo Masayuki;fotografia: Kayano Naoki; montaggio: Kikuchi Junichi; musica: Suo Yoshikazu; interpreti e personaggi: Motoki Masahiro (Shuhei); Shimizu Misa (Natsuko); Naoto Takenaka (Tomio Aoki); Emoto Akira (Professor Anayama); produzione: Daiei; prima uscita in Giappone: 15 gennaio 1992; durata: 103; riconoscimenti: 16th Japan Academy Prize (Best Picture, Best Director, Best Screenplay, Best Actor, Best Supporting Actor)

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