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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

Interviste

Kore-eda Hirokazu 

Intervista di Takahashi Junko – Traduzione di Franco Picollo&Hiromi Yagi

L’intervista che segue è comparsa originariamente sull’Asahi Shinbun (pagina Opinion) del 15/2/2014. Ringraziamo l’Asahi Shinbun e Kore-eda Hirokazu per la loro gentile disponibilità e per l’autorizzazione alla pubblicazione in lingua italiana. L’intervista non può essere riutilizzata senza l’autorizzazione dell’Asahi Shinbun. Tutte le recensioni dei film del regista sono raccolte nel nostro Speciale Kore-eda

 
Il mondo non è fatto solo di ciò che si vede. È una battuta del drama televisivo [Going My Home] di cui Kore-eda Hirokazu – il regista internazionalmente acclamato, vincitore fra l’altro, del Premio della Giuria al Festival di Cannes con il film Soshite chichi ni naru [Like Father, Like Son] – ha curato anche la sceneggiatura. Amici e nemici. Vincitori e vinti. Abbiamo chiesto a Kore-eda come vede questo Giappone in cui sembra regnare una visione dicotomica delle cose.

Lei ha aderito alla “Libera iniziativa delle persone del mondo del cinema che si oppongono alla bozza di legge sulla protezione dei segreti speciali” costituita a dicembre dello scorso anno [Riferimento alla discussa legge limitativa della libertà di comunicazione approvata in Giappone alla fine del 2013].

Come individuo che vive nella società, ho una responsabilità.

Non si è preoccupato di venire etichettato come “rosso”?

Solo in Giappone passa inosservato questo modo anomalo di considerare le cose. Quando giro un film o lavoro per la televisione, io vorrei contribuire a costruire una società ricca e matura in cui possano convivere, rispettandosi reciprocamente, persone che hanno valori diversi. Perciò se lo Stato o i nazionalisti tentano di reprimere la nostra diversità, alziamo la voce. È una cosa naturale. Non è ideologia.

Non pensa di fare un documentario di denuncia sulla politica e la società giapponese? Se fatto da un regista internazionalmente famoso come lei potrebbe anche cambiare l’atmosfera in Giappone.

Le faccio un esempio. Il violento atto d’accusa contro il governo Bush fatto da Michael Moore con il suo Fahrenheit 9/11 avrà di certo impressionato tante persone. Tuttavia, io penso che il vero documentario debba essere essenzialmente qualcosa che fa maturare il pensiero di chi lo vede. Quando guarda un documentario di pura denuncia, la gente certamente si compiace, può anche risvegliare la propria rabbia e questo magari potrebbe persino cambiare la direzione del vento nella società. Ma fare un film che abbia come obiettivo in sé questi esiti, penso sia fuori strada.
A un incontro a cui ho partecipato, il poeta Tanikawa Shuntarō ha detto chiaramente che “la poesia non è auto-espressione”. La poesia non esprime ciò che abbiamo dentro ma descrive lo stupore dell’incontro con la ricchezza delle cose del mondo o con la complessità dell’uomo. Ecco, credo che per le immagini sia esattamente la stessa cosa. L’atto di filmare è già in sé una scoperta, un incontro. Una poesia o un messaggio non esistono nell’interiorità del loro autore ma nel mondo esterno. Il documentario è uno dei mezzi per cogliere la poesia o il messaggio. Con il documentario, prima del cambiamento sociale deve esserci il cambiamento interiore, se preesiste una finalità da parte di chi filma, anche se sostenuto dalla più nobile delle intenzioni, quello non è più documentario.

Allora che cos’è?

Propaganda. Tsuchimoto Noriaki, che era molto apprezzato anche all’estero, avendo filmato sistematicamente la malattia di Minamata [sindrome neurologica causata dall’intossicazione dovuta all’inquinamento provocato dallo stabilimento chimico Chisso che per oltre trent’anni aveva scaricato mercurio nel mare presso il paese di Minamata], nel film Shiranuikai [The Shiranui Sea] ritrae anche un pescatore che con i soldi offertigli per il risarcimento, abbandona il lavoro e si costruisce una casa di cattivo gusto piena di mobili vistosi. Come in questo caso, è proprio ciò che travalica, anche involontariamente, la mera accusa propagandistica nei confronti dei responsabili a costituire l’essenza del documentario. È solo quando arriva a ritrarre la ricchezza e la complessità delle persone che un film riesce a stimolare una riflessione profonda e in ultima istanza può anche far cambiare qualcosa nella società.
Si possono anche fare dei documentari che criticano direttamente il governo Abe [attuale Primo Ministro giapponese]. Tuttavia, la questione essenziale su cui dobbiamo riflettere è cosa sia questa superficialità che sta alla radice del nostro sostegno ad Abe e cosa occorra fare sul lungo periodo per far maturare i giapponesi e la società.

Questa superficialità. Lei cosa pensa che sia?

Tempo fa, Takanohana, il lottatore di sumo, si fece male al ginocchio destro ma pur essendo a pezzi vinse l’incontro decisivo di quel torneo contro Musashimaru. Il primo ministro di allora, Koizumi, esclamò “Sono commosso! Hai sopportato il dolore e hai fatto l’impossibile!” e tutto il Giappone si rispecchiò gongolante. Io, invece, ascoltandolo pensai “non mi piace questo politico”. Perché non ha detto nulla di Musashimaru? Poteva almeno dire qualcosa tipo “Tutti e due hanno dato il meglio”. Per Musashimaru, che è straniero, dev’essere stato piuttosto difficile combattere contro l’idolo nazionale Takanohana ferito a un ginocchio. Cosa avranno provato sentendo quelle parole Musashimaru e le persone che facevano il tifo per lui? Penso sia estremamente importante per un uomo politico prestare attenzione a cose di questo genere. Ma nell’attuale scena politica giapponese questa generosità di vedute manca completamente.
Per esempio, un politico che viene eletto con il sessanta per cento dei voti dovrebbe pensare anche all’altro quaranta per cento e cercare di condurre una politica per ottenere il consenso anche di questi elettori. Non è proprio perché deve affrontare un compito così difficile che gli viene conferito il potere e ha un’indennità parlamentare così alta? Ma da qualche tempo la politica è diventata qualcosa che chi vince le elezioni conduce a suo piacimento. Questo modo di concepire la politica è sbagliato. La democrazia non è la stessa cosa della decisione a maggioranza.
La gente applaude i politici che dichiarano continuamente il loro “vero sentire”, senza preoccuparsi minimamente del fatto che ci sono persone a cui possa non piacere. Ma da quando la politica è diventata un affare così facile e comodo? I politici non possono godere a loro piacimento della “libertà di espressione”, ma piuttosto la devono garantire a noi cittadini. Per questo, le esternazioni dei politici dovrebbero essere fatte con misura.

Però, non solo il mondo politico ma l’intera società è quasi dominata dall’idea: “Se non vinci, sei finito.”

Nella vita ci sono vittorie che non hanno valore e sconfitte che hanno valore. Ovviamente tutti desiderano una vittoria che ha valore. Però se esistessero soltanto queste due alternative, io sceglierei la sconfitta che ha valore. Il mio intento è di mostrare che esistono anche persone di questo tipo. C’è chi tifa per Musashimaru e chi in diverse circostanze non riesce ad avere lo spirito della festa. Credo che stimolare la capacità della gente di immaginare quel restante quaranta per cento sia il ruolo dei film o dei romanzi. Questo è ciò che ho in mente nel mio lavoro.
Ma in Giappone, dove la pressione del conformismo è fortissima, secondo me la gente non riesce mai ad avere l’occasione per pensare con la propria testa. La paura di esprimere il proprio parere è così forte che la capacità critica si è ormai molto indebolita. La conseguenza di questo fenomeno per quanto riguarda il cinema è che vi sono solo commenti confortevoli tipo “Ho pianto!”, “Quattro stelle!” Manca completamente l’abitudine a considerare criticamente un film e a tessere un ragionamento per esprimere le proprie idee su di esso. È un discorso che non si ferma al cinema ma che riguarda anche altri campi, come appunto la politica.
L’anno scorso, in occasione della presentazione in sala di Soshite chichi ni naru, molti mi hanno chiesto “Alla fine che scelte hanno fatto i protagonisti?” Poiché ho costruito la scena finale senza spiegarla con i dialoghi, il pubblico era rimasto con un vago senso di insoddisfazione. Anziché provare a immaginare da soli ciò che non viene mostrato e riflettere sul futuro delle due famiglie, volevano sentirsi rassicurati dalla risposta “corretta” del regista. Bene o male che sia, queste reazioni all’estero non ci sono. Allo stesso modo, i giornalisti e i critici giapponesi mi chiedono spesso “Qual è il messaggio che ha voluto trasmettere con questo film?”, ma anche questo all’estero non me lo chiedono quasi mai.

Davvero?

Non solo non me lo chiedono ma mi è anche capitato che una volta un giornalista russo mi dicesse “Forse non te ne rendi conto, ma tu dipingi persone abbandonate o scartate. Questa è la tua visione di base”. Effettivamente è così. Ho sempre voluto filmare storie di “abbandonati”. Non è incredibile? Invece in Giappone l’opinione della maggioranza viene ritenuta senza un particolare motivo l’opinione corretta e i film che hanno più stelle sono considerati i film che vale la pena di vedere. Le ragioni di questa “superficialità” sono più di una. Non c’è altro da fare che “approfondire” un po’ alla volta, ognuno nel suo piccolo, cercando di pensare con la propria testa e di agire autonomamente.

Vuole filmare gli “abbandonati”?

Un giorno vorrei fare un film sugli emigrati giapponesi in Brasile. Erano stati “abbandonati” dal loro paese ma quando scoppiò la seconda guerra mondiale diventarono dei puritani, cioè degli ultranazionalisti. Privi di qualunque informazione sull’andamento della guerra, non seppero neppure della sconfitta del Giappone e anche quando ne sentirono parlare non ci credettero. Arrivarono addirittura a uccidere i loro compagni che sostenevano che il Giappone era stato sconfitto dicendo che erano “antipatriottici”. Non le sembra che assomigli alla situazione attuale? Le vittime abbandonate dalla patria che diventano a loro volta carnefici. Vorrei provare a dipingere cosa successe quando le vittime abbandonate dalla patria passarono dalla parte dei carnefici.
Lo psichiatra Noda Masaaki fa notare che poiché la cultura include anche la storia dei carnefici, bisogna trasmetterla correttamente alle generazioni che verranno. È esattamente così. Nella storia di qualunque paese ci sono parti oscure. Le persone che vivono nella nostra epoca devono accettarlo. Ciononostante, la maggior parte della gente non lo accetta e dimentica. Anche per l’incidente alla prima centrale nucleare di Fukushima della TEPCO [Tokyo Electric Power Company] sta succedendo la stessa cosa. La gente sta tornando a spassarsela dicendo “la situazione è sotto controllo” ed esultando per le prossime Olimpiadi di Tokyo. È una cosa da non credersi.
L’attuale problema del Giappone è che tutti quanti partono dal vittimismo. Il regista Ōshima Nagisa criticò radicalmente Ventiquattro pupille di Kinoshita Keisuke. È proprio perché rispettava molto Kinoshita che Ōshima odiò così tanto sia quel film basato sul vittimismo sia i “bravi” giapponesi che piangevano nel guardarlo. La guerra era forse venuta da fuori? No, non è così. È anche per far riemergere la consapevolezza che la guerra nacque dal nostro interno che vorrei fare un film sugli aspetti criminosi della storia del Giappone che non sia basato sul vittimismo. Perché tutti tendono a dimenticarlo. Credo che qualcuno debba farlo.


Tsukamoto Shin’ya

a cura di Claudia Bertolè

Il regista Tsukamoto Shin’ya è stato ospite dell’ultima edizione (2012) dell’Asian Film Festival di Reggio Emilia, che gli ha dedicato una retrospettiva comprendente ben dodici dei suoi film (vedi il nostro Speciale, comprendente tutte le schede critiche). Gli è stato anche consegnato un premio alla carriera. Il 18 marzo 2012 ha partecipato ad un incontro durante il quale ha risposto alle domande sia del pubblico che dei giornalisti presenti.

Eccone alcuni spunti.

I suoi film, da un certo momento in poi, si concentrano maggiormente sulle figure femminili, fino ad arrivare a Kotoko nel quale arriva a trattare il tema della maternità.

Si tratta di un percorso articolato nel tempo. Per sintetizzarlo al massimo posso dire che mi sono trovato ad un certo punto della mia vita ad accudire per sette anni mia madre ammalata, e allo stesso tempo mia moglie stava crescendo mio figlio. Questi due aspetti, della vita della donna, mi hanno fatto riflettere.

Nei suoi film sono presenti momenti di danza, spesso poco notati dai critici…

Si, anche questo è un modo per mettere in evidenza il corpo femminile, avvolto in abiti leggeri, e che il movimento fa risaltare.

Quanto è invece importante la musica?

Io “nasco” come pittore. Quindi per me è naturale creare delle immagini e senza dubbio è la musica che riesce a renderle vive. A proposito di pittura e animazione, mi piacerebbe in futuro poter realizzare un film animato, magari con le nuove tecniche digitali, di argomento erotico.

Quali sono i registi occidentali che l’hanno influenzata?

Per fare solo qualche esempio, direi Fellini, con il suo Amarcord e sicuramente Dario Argento. C’è una scena in Tenebre, in cui si vede un braccio tagliato e allungato, molto bella.

…e orientali?

Edward Yang per esempio.

Lei ha iniziato la sua carriera di regista sperimentando in 8mm…

Si, è stata un’esperienza fondamentale perché mi ha fatto capire quanto sia importante riuscire a fare “tutto” da solo, lo faccio ancora adesso.

Spesso affronta il tema dell’uomo inserito nella società che lo circonda.

Non è normalmente un tema specifico che ho in mente quando inizio a girare, ma è inevitabile… Io vivo a Tokyo, dove tutto è tecnologia spinta. Per sopravvivere in un posto del genere bisognerebbe veramente essere come Tetsuo!

E a proposito di Tetsuo, è un film della fine degli anni Ottanta, venivamo dal movimento cyberpunk, ma non solo, era anche il momento di maggior cementificazione delle città e io volevo che nel mio film vi fosse il riflesso anche di questo.


Fujiwara Toshifumi 

by Matteo Boscarol

New Trends in Japanese Documentary. An exclusive interview with Fujiwara Toshifumi

 

I’ve watched a couple of documentaries dealing with the disaster that hit Japan on March 11th, but in my opinion, your work stands apart from them. I think you adopted a broader perspective. Among other things, I felt No Man’s Zone was a visual essay on the impact that images of destruction have on our society.

Yes, you’re right but obviously it was something that was inside me from before the disaster and grew up over the years.

It  was also like watching two documentaries, one with the row images and interviews from the area hit by the tragedy, the other one more reflective, with the narration and the editing giving a philosophical frame.

We’ve tried to create two separate layers very deliberately. One of the reasons is that it is a French-Japanese co-production. The cameraman and director are Japanese, and the editor is French…so why not have two layers to incorporate a certain distance within the contest. Originally, we thought of a French voice and the narration was different from the final one. It was more like a fictional story. The idea was that of a French woman and a Japanese director corresponding through the Internet. We collaborated with some French writers, but they didn’t get the right ideas because it was also supposed to be quite critical of the French culture itself. It turned into something rather awfully colonialist. So it didn’t work and I rewrote the whole narration.

In this way, it should be able to reach a foreign audience. The Japanese media didn’t do a good job, but at the same time, the international media excelled in misinformation, especially the Italian media.

Even here in Japan, it’s turning this way. Now the Japanese anti-nuclear movements are paradoxically against the people of Fukushima.

There’s a scene that particularly impressed me and even reminded me of some parts of Ogawa Shinsuke’s Heta Buraku. It’s the one when the camera is following an old lady wandering and speaking in her garden.

Thank you for the compliment. It is probably because my cameraman, Takanobu Kato, was working with Ogawa. He was one of the last people to leave the production. It was important that he was with me because, being trained under Ogawa when his production was in Yamagata, he literally lived there raising rice and so on. As such, he knew how to shoot rice fields, and other details of life in the countryside.

In the same scene through the memory of the old lady, there are also references to a wider sense of time, historical and natural cycles, reaching as far as the period after the Second World War.

– I would say that it goes even farther back in time; in fact, she recalls her father having been a silk worms teacher. It was before the war when Japan biggest export was silk itself.

The images of movies of this kind focus usually on destruction, but we tried to suggest what was there before the destruction. What was destroyed and also what the people of these areas have lost is much more important.

What triggered you to go to Fukushima a month after the Earthquake to start to shoot?

I was disgusted by the way the images were shown on TV. The live footage didn’t show us how the people used to live, and didn’t give people a chance to communicate. Their lives up there were so different from the lives of journalists in Tokyo; moreover, the images are just raw material without any good editing. My intention was to make a film that would look distinctly different from what we watched on television, which was usually shot very hastily with a hand-held camera. One of my first commitments was to shoot as beautifully as we could. That’s why, when possible, we used a tripod. Already, I’d hated lots of contemporary documentaries because their shots aren’t beautiful. They shoot them too easily. Even though we did it in 10 days, we tried to do it as well as we could. Beautiful editing also was important.

And the voice of Khanjian Arsinée for the narration is very beautiful indeed.

Her voice is incredible. She’ s Armenian, but she grew up in Lebanon so her native tongues are Arabic and French. She moved to Canada when she was 17, in French-speaking Quebec. I liked her voice because she is not totally native in English [the narration is in English] and so we cannot clearly identify the nationality of her voice.

You went to Fukushima with your cameraman and one assistant—is that right?

Yes, it’s better to have a small crew also knowing that the TV people often annoy them…

How did the people there react to you and your crew?

Again, we were only three and we were not wearing any protective gear or masks, so they were extremely polite to us as they usually are to everybody else. You know, the people of Tohoku have a tradition for hospitality. Also, we were not asking abrupt and stupid questions like “what do you think of that and that…?”.

The problem of how to approach and relate to the people affected by disasters is a crucial one for the art of documentary. At the last Yamagata Documentary International Film Festival, there was a debate on this topic.

I was there myself, and I think the largest problem of these documentaries is that they’re more about the filmmakers going there and not necessarily about the places and the people living there.

The general problem is that many filmmakers went to Tohoku, but they made films about their own confusion and panicked state of minds, while they forgot to make documentaries about the damages of the quake and the people who were directly touched by the tragedies. They are too self-centered and unconsciously self-obsessed. An even larger problem that I observe is that the audience in Tokyo takes comfort in seeing these movies, being reassured that the filmmakers are also confused. I find this tendency very problematic for being too masturbatory. They are forgetting the original function of cinema, which must be something open to create links and communications; under such circumstances, we should be mediums to make a bridge between those who experienced the tragedies and us who didn’t. That is one of the reasons why we tried to make “No Man’s Zone” an open film text, instead of sharing the personal experiences (if not self-excuses) of filmmakers. We wanted it to ask direct questions to the audience. Of course, my cameraman worked with Ogawa and I made a film about Tsuchimoto. Thus, I was influenced by others and different generations of documentary’s filmmakers, I’ve kind of skipped the generation of the so-called private documentaries.

Like Kawase Naomi?

I like Kawase and what she does; she is of my generation, but we do different things and that’s ok with me. I could say that I do documentaries like in the 60s, except that there is no more politics involved. Japanese leftist politics disintegrated in a very rapid way after the 70s.

Do you think March 11th will change something in filmmaking?

In my opinion, it should. But I haven’t seen the change yet. After all, only 9 months have passed. One thing for sure is that we have to try to do something different, different from what we were doing before. Actually, before the quake, I was working on a movie but now I’m not sure if it’s worthwhile to complete it. It’s about Japan before March 11th.

It’s a different period, it’s like being after a war in a way.

We should consider March 11th almost as important as August 15th, 1945.

A few months ago, I talked to Sono Sion, and he said that the tragedy was paradoxically “good” because it suddenly uncovered many problems affecting the Japanese society. For instance the relationship between urban centers and countryside, that is Tokyo-Tohoku…

I totally agree with him. We (in Tokyo) are just parasites, which is repeatedly stated in No Man’s Zone. The nuclear plants have been there for almost 40 years, and what is awful is that even now after 9 months in Tokyo, people don’t want to admit that we’re responsible.

And even now [this interview was conducted during the Christmas period], it’s like nothing has happened at all.

At the Tokyo FilmEx this year, a lady in the audience from Fukushima was quite surprised after watching the movie. She walked outside and found the streets in full illumination for Christmas.

Can you tell us something about the music used in the film?

It was composed and performed by a free jazz American musician who’s been living in France for many years. His name is Barre Phillips and we’ve worked together before [Independence, 2002]. Again, we decided on a non-Japanese composer, one of the best that you can get, and also one that was not so expensive and not too commercial. The funny thing is that he recorded the music in a chapel of an ancient monastery in the south of France. In No Man’s Zone, there are a lot of Japanese traditional views with images of Buddhas and small gods, so I thought it would be interesting to have the music recorded in a Catholic chapel. In this way, the music and the narration can maybe suggest something universal. That’s why I wanted someone else and not myself to do the narration in English. It would otherwise have become just a documentary about my experience. This nuclear accident is asking tremendous and huge questions to all of us, to our civilization and how we have related ourselves to nature and to the universe, how we perceive our lives. We actually have to think about the philosophical and even the religious aspects of it all, I would say, and it’s stated at the end of the film, that Japan, embracing western civilization, has accepted its idea of a nature existing for us, to serve humans. It’s actually a very Christian concept. It is not even Jewish or Islamic; it’s a particular belief of Christianity to say that God created everything for us.

Tokyo, December 2011.