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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

Monografie

Le schede riepilogative degli speciali dedicati ad alcuni tra i migliori registi del cinema giapponese dal 1980 a oggi scelti dalla redazione di Sonatine.


 

 

Okita Shūichi: la commedia anomala

di Claudia Bertolé
Okita Shūichi, Saitama, 1977

Un grappolo di personaggi in uno spazio ben definito, il tono lieve e ironico della commedia, i drammi che aleggiano o esplodono, ma la loro forza potenzialmente dirompente è ricondotta dall’autore a volte a un siparietto che smorza i toni, altre composta con un campo lunghissimo che relativizza.

Okita Shūichi, dopo qualche esperienza come attore, nel 2006 esordisce alla regia con il film Ryoichi & Kiyoshi, nel quale uno studente bandito da scuola per aver ferito un compagno si ritrova a trascorrere il proprio tempo in casa con uno zio eccentrico, improvvisamente apparso dopo aver tentato il suicidio.
L’opera successiva, The Chef of South Polar (2009) conferma la direzione presa dal regista: otto uomini si trovano a condividere gli spazi di una stazione in Antartide, per il tempo di una spedizione di ricerca.

Spazio e tempo

Le dinamiche tra i personaggi dei film di Okita Shūichi, così come le atmosfere lievi che contraddistinguono le interazioni tra soggetti che sembrano a volte provenire da mondi diversi, prendono vita in luoghi ben definiti.
Lo spazio è un elemento determinante perché i meccanismi della commedia di Okita abbiano efficacia: il luogo diviene espressione del personaggio, e al tempo stesso è il campo d’azione circoscritto nel quale gli eventi tra i pochi, ben determinati soggetti, producono i loro effetti.
In Ryoichi & Kiyoshi si tratta della casa nella quale zio e nipote coabitano; in The Chef of South Polar – che per il tema non può non far pensare al classico Il pranzo di Babette di Gabriel Axel (1987), con il quale condivide l’analoga attenzione per la preparazione di portate sontuose in un ambiente, e per commensali, inconsueti – è la stazione di osservazione in Antartide. Struttura separata dal resto del mondo da una distesa di neve nella quale gli otto uomini trascorrono il loro tempo occupandosi di trivellazioni e studio del ghiaccio, di misurazioni, della salute del gruppo o, come il narratore della storia, il giovane Nishimura, di far fronte alle esigenze alimentari. Altre volte lo spazio è quello della natura. Per The Woodsman and the Rain (2012) è il bosco, dove Katsuhiko – Katsu per gli amici – lavora e dove un bel giorno appare una troupe decisa a filmare le riprese di un film sugli zombie, sconvolgendo gli equilibri del boscaiolo e dell’intera comunità; in A Story of Yonosuke (2013) è la scuola, dove il ragazzo intesse a modo suo rapporti che dispiegheranno effetti a lungo termine, determinando un’onda lunga di ricordi; le signore di Ecotherapy Getaway Holiday (2014), in gita alla ricerca di una famosa cascata, finiscono per perdersi nella foresta, che diventa lo sfondo per la messa in scena delle diverse personalità; la vicenda di The Mohican Comes Home (2016),  sul ritorno del figlio alla casa del padre morente, si consuma su un’isola; il pittore eccentrico protagonista di Mori – The Artist’s Habitat, non si sposterà mai dal proprio giardino.
Nello spazio circoscritto prendono vita situazioni ironiche, dialoghi dal sapore surreale. Il ritmo rallenta. Come nella sequenza iniziale di The Woodsman and the Rain, nel momento in cui, mentre Katsu è intento nel suo lavoro e sta segando un albero, improvvisamente nel bosco appare un uomo che gli chiede di non fare troppo rumore perché lì vicino stanno girando un film. Il boscaiolo si ferma, lo osserva con un misto di incredulità e sospetto. L’altro ripete l’invito, ma non sembrano capirsi. Si scrutano in silenzio, entrambi seri, anche se curiosi e perplessi.
«Posso almeno potare?» chiede infine Katsu. È il turno dell’uomo del film di non capire. Subito dopo il boscaiolo senza battere ciglio sale sul tronco, aggrappandosi con le mani e, arrivato in cima, con colpi precisi recide piccoli rami, sotto lo sguardo esterrefatto dell’altro.
Anche la gestione del tempo viene utilizzata dal regista in maniera strumentale ai propri obiettivi. In Mori – The Artist’s Habitat da un lato la vicenda raccontata ha luogo nell’arco di un solo giorno, dall’altro si insiste sul senso quasi claustrofobico che provoca la ripetizione dei gesti usuali (un giorno che ne rappresenta mille altri), con tempi dilatati, con l’introduzione di soggettive lunghissime su un ramo, una pietra, un insetto, o “inseguendo” il personaggio nelle sue distrazioni.
In generale, con uno stile sobrio e un ritmo pacato, e pur lasciando prevalere il sorriso, si induce a una riflessione profonda sulle dinamiche che regolano il nostro vivere sociale, e sulla frenesia che spesso le caratterizza.

Poetici alieni

Elemento portante della poetica cinematografica minimalista di Okita sono senza dubbio i suoi personaggi. Surreali, teneri, timidi, ma coraggiosi. Sempre e costantemente fuori dalle righe.
In un incrocio affollato da persone che camminano e sembrano sapere dove stanno andando, nella Tokyo del 1987, si fa strada una figura che si muove in maniera incerta: è Yonosuke. Ha un paio di borsoni, è chiaramente appena arrivato nella capitale (è infatti originario di una piccola città nella prefettura di Nagasaki) e si muove come frastornato, guardandosi in giro in continuazione. Il suo è un movimento obliquo nell’inquadratura, frammentato, diverso da quello delle persone che lo circondano; così come, poco dopo, raggiunto il luogo dove alloggerà, si distende di traverso sul pavimento della stanza vuota, mentre la macchina da presa, dopo un leggero movimento, lo centra inquadrandolo nel vano della porta aperta.
I personaggi di Okita si presentano e si muovono come se si sentissero sempre fuori luogo: ingenui, ma anche determinati, con un approccio impacciato nei confronti del mondo che li circonda.
L’interazione con il resto dell’umanità pare difficile, ma non impossibile e produce talvolta risultati esilaranti. Il primo piano del boscaiolo introverso truccato da zombie per partecipare a una scena nella quale, insieme ad altri morti viventi attacca un gruppo di umani nei pressi di un fiume, e poi la sequenza nella quale viene colpito dal fuoco dei fucili, cade, si spolvera i vestiti e riprende l’andatura barcollante, sono decisamente efficaci. Yakusho Koji è straordinario nel rendere le sfaccettature di un uomo un po’ asociale forse, ma di cuore, e per giunta curioso e pieno di buona volontà nel voler aiutare la troupe sgangherata e soprattutto il loro giovane regista. Quest’ultimo, più impacciato di lui, quasi bloccato nelle proprie azioni, sarà il motore di un rapporto padre-figlio che aiuterà entrambi. Intensa, ed evocativa per certi versi, la sequenza dei due a cena, durante la quale il ragazzo si confida raccontando del proprio padre, che avrebbe voluto per lui una carriera ben diversa da quella di regista di film horror. La padrona del locale offre un dolce, il ragazzo rifiuta e allora Katsu ne afferra una cucchiaiata e lo obbliga a ingoiarla. Subito dopo il giovane si rende conto di quanto sia delizioso e allora entrambi si avventano sorridenti su quanto ne rimane nella ciotola. In quel preciso momento si sblocca definitivamente il loro rapporto. Inoltre sembra rimandare per analogia al personaggio bizzarro interpretato da un giovane e affascinante Yakusho Koji nel film cult Tampopo (1985). Nell’opera di Itami Juzo erano le implicazioni sessuali legate al cibo a prevalere, nel film di Okita il cibo suggella un chiaro, e altrettanto dirompente, avvicinamento affettivo dei due personaggi. Katsu, il rude boscaiolo, è anche quello che si commuove leggendo la sceneggiatura del film di zombi, in un altro passaggio che è una chiara dichiarazione d’amore per il cinema.
Il tocco leggero e surreale con il quale il regista dipinge i suoi personaggi non è venuto meno nelle opere più recenti: Momoko, protagonista di Ora Ora be Goin’ Alone (2020) è una settantacinquenne che vive in solitudine tra le stanze della propria casa, spingendosi al massimo alla sala d’aspetto del medico o alla locale biblioteca. Il suo mondo mentale è però teso a una ricerca di equilibrio tra fantasia e realtà, in uno spazio immaginario popolato dalle proprie voci interiori o da giganteschi mammut che la seguono come cagnolini. Anche Minami, la studentessa di One Summer Story (2020) appassionata di nuoto e anime, è in definitiva una outsider che il regista segue nell’estate scolastica giapponese mentre va ad incontrare il padre biologico che non vedeva da molto tempo.
Okita affronta il tema della famiglia e dei rapporti genitori-figli in diversi suoi film. In The Mohican Comes Home il giovane Eikichi, leader di un gruppo musicale punk rock, decide di tornare a casa dai genitori per informarli che sta per diventare padre. Poco dopo essere arrivato insieme alla fidanzata sull’isola dove vive la sua famiglia, le cose cambiano perché al padre – un personaggio particolare, anche lui musicista – viene diagnosticata una malattia incurabile. Il film approfondisce con sensibilità mista a ironia i rapporti familiari, quello tra Eikichi e suo padre innanzitutto, ma non solo, anche quello tra la madre e la fidanzata Yuka. Come già era avvenuto per A Story of Yonosuke, il tema della morte si insinua nell’intreccio e, come in tutti i suoi film, il regista riesce a fondere il comico con il drammatico senza mai risultare banale.
Quando si innamorano i personaggi alieni di Okita, il senso di disorientamento è massimo. Yonosuke e Shoko si dichiarano reciproco interesse in una grande sala dominata da una tigre imbalsamata, a casa di lei, sotto lo sguardo neanche troppo irreprensibile di una cameriera, costringendo la ragazza a rintanarsi dietro un tendone per nascondere la propria timidezza. Tempo dopo, durante il Natale nel piccolo alloggio di Yonosuke, li coglie di sorpresa una nevicata e allora scendono in cortile e finalmente si baciano, goffamente, mentre la macchina da presa si muove verso l’altro, lasciandoli soli a correre e ridere sul tappeto bianco.
Il giardino e la memoria

Durante un’intervista di qualche tempo fa il regista aveva confermato: «Tra i diversi generi prediligo le commedie, ma mi piacciono quelle – e vorrei che fosse così anche per i miei film – che fanno riflettere lo spettatore. Vorrei che le persone uscissero dalla sala chiedendosi se si trattasse veramente di una commedia oppure no… ».
Il movimento a salire della macchina da presa dal giardino del pittore Kumagai svela che il riquadro che contiene fiori e piante non è che uno spazio ridotto incastrato tra altre case e altri giardini. Il cambio di prospettiva relativizza, fa riflettere sulla percezione di ciò che ci circonda.
Il mondo fisico di Momoko, la sua casa, si fonde – con intermezzi tra il comico e il serio-nostalgico – con uno spazio della mente dove si illuminano e prendono vita i ricordi della donna: la giovane arrivata a Tokyo che incontra il futuro marito, la famiglia, il tempo trascorso insieme in armonia. La memoria si fa spazio “abitabile” per  Momoko, le sue voci interiori, i suoi pensieri, dal quale può entrare e uscire, ballarci e sognare, regno pervaso dall’ottimismo mai scontato di Okita Shūichi.

 


The Angry Man: il cinema arrabbiato di Toyoda Toshiaki

di Dario Tomasi

Toyoda Toshiaki, Osaka, 10 marzo 1969
«Sono uno zero non un millimetro di più» così afferma, fra sé e sé, il giovane protagonista di The Miracle of Crybaby Shottan (2018) dopo aver perso quella che crede essere l’ultima sua possibilità di entrare nel mondo dei professionisti degli shogi (gli scacchi giapponesi), cui aveva dedicato tutta la sua esistenza. In questa frase c’è tutto il nichilismo che permea l’opera di uno dei più arrabbiati registi del cinema giapponese contemporaneo, Toyoda Toshiaki, i cui film sono strettamente legati alla sua vita, in una dimensione fortemente autobiografica, come testimonia l’importanza della figura dell’outsider, di chi vive, un po’ per scelta, un po’ per costrizione, ai margini della società.

Lui stesso, in gioventù, appassionato di shogi, Toyoda si trova a frequentare cattive compagnie, finendo con l’essere arrestato, all’età di ventun anni, per aver rubato una motocicletta. Dopo una breve detenzione, lascia Osaka e la famiglia per trasferirsi a Tokyo, dove riesce a entrare nel mondo del cinema e lavorare, in veste di sceneggiatore, con Sakamoto Junji, uno dei più importanti giovani registi dell’epoca, collaborando al suo Checkmate (1991). Dopo un periodo di apprendistato, l’esordio alla regia avviene “col botto” grazie a Pornostar(1999 – mai titolo fu più fuorviante – un’opera violenta che ha per protagonista un giovane che sostiene come la yakuza sia inutile e con questa si scontra ripetutamente. Il film gli vale il premio quale Miglior esordiente della Corporazione dei Registi Giapponesi (Nihon Eiga Kantoku Kyōkai), cosa che ne fa subito uno dei nomi di punta di quella che diventerà la Nouvelle Vague del cinema nipponico degli anni Novanta (Kitano Takeshi, Tsukamoto Shin’ya, Kurosawa Kiyoshi, Miike Takashi…). Gli esiti felici dell’esordio sono confermati da Blue Spring, che si inscrive nel filone dei film di violenza studentesca, e da 9 Souls (2003), che verte sulla fuga di un gruppo di detenuti, ognuno dei quali ritratto con dolenza, nel suo presente, come nel suo passato.

La centralità della figura dell’outsider è già in questa prima ideale trilogia più che evidente, attraverso personaggi che si collocano chiaramente fuori dal sistema e che con questo hanno un rapporto violento e apertamente conflittuale. La carriera di Toyoda, subisce, però, durante la lavorazione del successivo Hanging Garden (2005) – dove a giocare il ruolo di outsider è un’intera famiglia – un brusco arresto, quando il regista viene accusato di possesso di sostanze stupefacenti, detenuto per trenta giorni e condannato a tre anni con la pena sospesa. Messo ai margini dall’industria del cinema giapponese, si rifugia nella casa di un amico e per un lungo periodo non può dirigere alcun film. Il ritorno al cinema, nella veste di regista indipendente, avviene con The Blood of Rebirth (2009), il suo primo jidaigeki (film in costume), giocato autobiograficamente sul tema della morte e della rinascita, attraverso la storia di un massaggiatore e del suo mizoguchiano amore proibito per la donna di un “capobanda”. La rabbia espressa nel film, la si ritrova tutta in Monsters Club (2012) e nel suo giovane protagonista, isolatosi dal mondo, che dalla sua baracca, fra le nevi, invia dei pacchi bomba a coloro che ritiene responsabili dei mali della società che lo circonda.

I due film riescono a riavvicinarlo al mondo ufficiale del cinema giapponese ed ecco così arrivare I‘m Flash! (2012), sul solitario e poco convinto capo di una setta religiosa; Crows Esplode (2012), un nuovo film di violenza giovanile, superbo nell’uso del décor, che rimanda al precedente Blue Spring, e che costituisce, dopo i due precedenti lavori di Miike Takashi, il terzo adattamento di una popolare serie di manga; e il già citato The Miracle of Crybaby Shottan. Quando Toyoda sembra essere ritornato in sella, ecco il nuovo incidente. A seguito di un’ennesima perquisizione domiciliare della polizia, con cui evidentemente non ci sono buoni rapporti, il regista è una seconda volta arrestato per possesso illegale di armi esplosive (secondo Toyoda non era che una vecchia pistola, appartenuta alla nonna e risalente alla Seconda guerra mondiale). E così si ricomincia da capo. Anche in questo caso, come in una sorta di eterno ritorno, la risposta del regista passa attraverso il cinema indipendente e il jidaigeki, con una trilogia, emblematicamente chiamata della “Resurrezione”, composta da due cortometraggi  Wolf’s Calling (2019) eGo Seppuku Yourselves (2021) e un medio-lungometraggio, The Day of Destruction (2020), in cui i motivi dell’emarginazione, della rabbia, dell’avversione nei confronti della società e delle sue regole si mescolano a quello della pandemia, con evidenti riferimenti al Coronavirus.

Nel corso della sua travagliata carriera, il cui futuro ci riserverà sicuramente molte sorprese, Toyoda ha dato corpo a un’opera dal carattere autoriale, segnata dal ritorno costante di situazioni, temi e soluzioni visive (fra quest’ultime, ad esempio, l’uso del ralenti e l’immagine del personaggio che attraversa una folla di cui è chiaramente “a parte”). Si è già citata la figura dell’outsider, spesso un reietto in conflitto con la società (dall’Arano di Pornostar al Raikan di Go Seppuku Yourselves, costretto al suicidio perché accusato di diffondere l’epidemia, attraverso, per non citare che un altro caso, i pugili “vinti” del documentario Unchain, 2000). Si pensi ancora al nichilismo masochista  (ad esempio, le scene del giovane che tira ripetutamente un pallone contro la porta vuota di un campo di calcio senza mai riuscire a centrarla e del suicidio finale con “battimani” di Blue Spring, o dell’evaso che si prende ripetutamente a schiaffi  in 9 Souls); al ruolo della famiglia (non solo in Hanging Garden, che su un nucleo familiare è interamente costruito, ma come non citare anche le ripetute e asfissianti visite dei parenti e la famiglia distrutta di  Monsters Club, o il ricordo del padre pugile morto dopo un incontro di Crows); alla presenza volutamente invasiva della musica (pop, rock, grunge o punk, ma anche a quella tradizionale giapponese; Toyoda invita spesso gli spettatori dei suoi film a “tenere alto il volume”); e, per concludere, all’importanza delle scene immaginarie che attraversano quasi tutti i suoi lavori costituendone alcuni dei momenti più alti (dai coltelli che cadono dal cielo in Pornostar all’apparizione del locale di spogliarello in 9 Souls,  dalla pioggia di sangue di Hanging Garden ai fantasmi dei familiari morti di Monsters Club, da Shottan che si vede sprofondare nel fango in The Miracle ai viaggi nel limbo e alle resurrezioni di The Blood of Rebirth).

 


 

Hamaguchi Ryūsuke: destino, fantasia e racconti morali

di Valerio Costanzia

Hamaguchi Ryūsuke, prefettura di Kanagawa, 16 dicembre 1978

Classe 1978, Hamaguchi Ryūsuke nasce nella prefettura Kanagawa. Dopo aver frequentato la Facoltà di Lettere dell’Università di Tokyo, e prima di iscriversi alla Tokyo University of the Arts, inizia a lavorare, senza successo, come assistente alla regia per film commerciali. Capisce presto che quello del cinema commerciale tout court sia un mondo a lui poco affine: viene quindi indirizzato verso una società di produzione televisiva, finché riesce ad arrivare alla Tokyo University of the Arts dove trova, come insegnanti, Takahashi Hiroshi e Kurosawa Kiyoshi. Qui si specializza in regia laureandosi, nel 2008, con il film Passion, intensa e articolata trama di relazioni “pericolose” che ruota attorno ad alcune giovani coppie. Il film viene selezionato per il concorso al Tokyo Filmex del 2008 (un festival internazionale dedicato, in particolare, a lungometraggi nuovi e indipendenti dall’Asia).

Film seminale, Passion mette in luce la grande sensibilità di un autore in nuce che di lì a pochi anni arriverà a comporre una filmografia caratterizzata da opere sempre più personali e con un suo stile ben riconoscibile. Un cinema di parola, da un lato, ma anche di silenzi, di gesti e di sguardi che vanno delineandosi, film dopo film, in un linguaggio estremamente composito, improntato a un rigore formale che tiene a bada la materia drammaturgica a volte sfuggente e debordante, sia per durata sia per slancio empatico. 
Ma il debutto vero e proprio di Hamaguchi risale ad alcuni anni prima, nel 2003, quando, venticinquenne, gira in Super8 Like Nothing Happened (Nani kuwano kao). Del film vi sono due versioni, una più estesa di 98 minuti, e un’altra più breve di 43, inclusa, quest’ultima, negli extra del Blu-ray Grassopher di Asako I & II (Netemo Sametemo). Negli stessi anni Hamaguchi si esercita con altre prove: nel 2007 realizza niente meno che un remake di Solaris di Tarkovskij, a sua volta già portato sul grande schermo da Steven Soderbergh nel 2002. In un’intervista a “Filmmaker Magazine” del maggio 2019, Hamaguchi ricorda questi suoi inizi, svelando il prestigioso docente che lo incarica di lavorare sul remake di Solaris durante il suo primo anno alla Tokyo University of the Arts, ovvero Kurosawa Kiyoshi. Con a disposizione un budget di 4 milioni di yen, Hamaguchi realizza il film partendo dal testo originale di Stanisław Lem (il film, per questioni di diritti, avrà solo delle proiezioni nel circuito universitario e scolastico). Solaris non è l’unico progetto che realizza perché lavora ad altri corto e mediometraggi prima di cimentarsi con il saggio di laurea Passion.
Nel 2010 è la volta di The Depths (titolo coreano: Simdo) che nasce da una coproduzione nippo-coreana o meglio, frutto di un programma di collaborazione tra la Korean Film School e la Tokyo University of Arts. Il film, con un budget pari al doppio di quello per Solaris viene girato in Giappone con un cast coreano. The Depths è forse, con Touching The Skin of  Eeriness (Bukimi na Mono no Hada ni Sawaru), l’unico film in cui Hamaguchi imbastisce una storia, seppur sottotraccia, di detection che fa da base a una pulsione desiderante più esplicita e marcata rispetto agli altri film, come se un côté melodrammatico, decisamente fuori luogo nel suo cinema, provasse a insinuarsi tra le pieghe del racconto.
Il 2011 è l’anno terribile, per il Giappone, del terremoto e maremoto del Tōhoku con il successivo tsunami e i danni causati, tra gli altri, alle centrali di Fukushima. Con il regista Sakai Kō, Hamaguchi inizia un proficuo e lungo lavoro sul versante documentario che si concretizza in 4 film realizzati tra il 2011 e il 2013 e che hanno come protagonisti i sopravvissuti: The Sound of the Waves (Nami no oto) 2011; Voices from the Waves: Shinchimachi (Nami no koe – Shinchimachi) 2013; Voices from the Waves: Kesennuma (Nami no koe – Kesennuma) 2013; Storytellers (Utau hito) 2013.
È in questa fase che il regista prepara il suo nuovo film, Intimacies (Shinmitsusa) uscito nel 2012. Il film ripercorre la gestazione di una pièce teatrale, con una prima parte dedicata alle prove e una seconda alla sua rappresentazione, ed è frutto del corso di recitazione dello spettacolo teatrale Shinmitsusa, come progetto di laurea per gli studenti di una scuola di cinema e teatro di Tokyo, in cui Hamaguchi insegna. Intimacies è un film-laboratorio interamente catalizzato dal teatro e dalla scrittura, privo di filtri e di quarte pareti, senza distinzioni tra privato e pubblico, un lavoro sulle emozioni e sulla scrittura che sembra guardare a Cassavetes, regista molto amato da Hamaguchi, a suo dire fonte primaria del suo amore per il cinema fin dalla prima visione di Mariti (Husbands, 1970). Dopo la fotografia e il teatro, è la danza a essere protagonista del successivo Touching The Skin of  Eeriness del 2013, un’altra lieve incursione nel thriller, dopo The Depths, in cui però i margini tra realtà e fantasia si fanno più flebili.
È il preludio al primo grande successo di Hamaguchi, ovvero Happy Hour (Happī awā). Incurante della durata, Hamaguchi mette in scena la vita quotidiana di un quartetto di donne partendo, anche in questo caso come Intimacies, da un precedente lavoro off di interviste, tratte da un laboratorio di recitazione improvvisato con attori non professionisti, che il regista ha curato nel 2013 presso il Kiito Designe and Creative Center di Kobe, città in cui ha anche ambientato il film.
È un Hamaguchi decisamente diverso quello che si vede in Happy Hour, un regista ormai consapevole, anche grazie al lavoro documentaristico, dell’importanza dell’ascolto per ottenere una recitazione così aderente al personaggio/non personaggio: non è un caso che Sakurako, Jun, Akari e Fumi siano interpretate da attrici non professioniste alla loro primissima prova sul grande schermo e che lo script sia nato dalle autointerviste guidate da Hamaguchi durate il laboratorio. Ovviamente l’ascolto è funzionale alla messa in scena che in quest’opera raggiunge una sua armonica classicità come dimostra l’incipit che ci presenta, secondo gli stilemi del classico découpage, le quattro donne prima sulla funicolare (ennesima prova di quanto i mezzi di trasporto siano vettori determinanti di corpi ed emozioni nel cinema di Hamaguchi) e poi attorno al tavolo.
Happy Hour riceve molti premi, tra cui il Pardo al Festival di Locarno per la migliore interpretazione femminile alle 4 attrici protagoniste e una menzione speciale per la sceneggiatura allo stesso Hamaguchi. Dopo il mediometraggio Heaven is still far away (Tengoku wa mada tōi) del 2016, una piacevole e delicata ghost story, il cinema di Hamaguchi sembra ormai pronto per affacciarsi sui più importanti festival internazionali.
Asako I & II del 2018 è in concorso a Cannes ed è il suo primo film “commerciale” girato in studio. Pur non vincendo, il film segna un ulteriore tassello verso quel riconoscimento a cui certamente ambisce. Hamaguchi si spinge sul versante della fantasia e del gioco, due parole chiave del suo cinema. Giocare con il doppelgänger del personaggio di Baku/Ryōhei ma anche con i sentimenti come in un racconto morale di Rohmer, altro nume tutelare del regista, che cita apertamente durante un’intervista a proposito della proiezione di Asako I & II in Francia, quando ha modo di parlare con Mary Stephen montatrice di molti film del maestro francese. Il riferimento a Rohmer è ancora più evidente in Il gioco del destino e della fantasia (Wheel of Fortune and Fantasy, 2021), nella sua struttura episodica di contes moraux, di caso e immaginazione come recita il titolo originale, Gūzen to sōzō. Il film si aggiudica l’Orso d’Argento alla 71ͣ Berlinale ed è in concorso al Far East Film Festival del 2021. Intanto collabora con il maestro Kurosawa firmando la sceneggiatura di Wife of a Spy (Supai no tsuma) che si aggiudica il Leone d’argento per la migliore regia a Venezia nel 2020.
Un anno d’oro per Hamaguchi il 2021 perché, complice il ritardo causato dal Covid-19 (le prime due storie di Wheel of Fortune and Fantasy sono state scritte e girate del 2019, la terza un anno dopo nel luglio 2020) è anche l’anno di Drive My Car (Doraibu mai kā), entrambi i film distribuiti in Italia da Tucker Film. Ancora il teatro, in particolare Zio Vanja di Čechov, già visto a tratti in Asako I & II con l’attrice naif Maya, ma soprattutto Murakami e una iconica Saab rossa hanno conquistato la giuria di Cannes che ha assegnato a quest’ultima opera il premio per la miglior sceneggiatura.
Breve bibliografia
 
FILM COMMENT
CAHIERS DU CINÉMA
n. 744, maggio 2017
Asako I & II de Ryusuke Hamaguchi, Hidetake Yuki & Abi Sakamoto,
Senses de Ryusuke Hamaguchi, Nicholas Elliott
n. 751, gennaio 2019
Asako I & II de Ryusuke Hamaguchi, Nicholas Elliott
Les secrets d’Asako. Entretien avec Ryusuke Hamaguchi, Nicholas Elliott
n. 755, maggio 2019
Passion de Ryusuke Hamaguchi, Vincent Malausa
n. 778, luglio-agosto 2021
Drive My Car de Ryusuke Hamaguchi
Babel sur le rivage, Mathieu Macheret
La conduite du texte Entretien avec Hidetoshi Nishijima
VARIETY
SIGHT&SOUND
CINEFORUM
MUBI
THE NEW YORKER
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SLANT MAGAZINE
FILMAKER MAGAZINE
ASIAN MOVIE PULSE
DOCUCITY
BUSAN INTERNATIONAL FILM FESTIVAL

Dalla memoria all’assenza: il cinema di Koreeda

di Dario Tomasi

Sintesi della presentazione di Dario Tomasi di Air Doll (Kūki ningyō, Koreeda Hirokazu, 2009) tenutasi al Cinema Massimo di Torino il 19 gennaio 2011. La sintesi è stata curata dallo stesso autore.
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Kore-eda Hirokazu (Tokyo, 6 giugno 1962)

Koreeda Hirokazu è un regista di primo piano del cinema giapponese contemporaneo, anche se  meno noto di altri (Kitano, Tsukamoto, Miike, Kurosawa Kiyoshi) perché piuttosto lontano dal cinema di genere, dai miti della cultura pop giapponese, da quella dimensione estrema, che sono spesso alcune delle ragioni che determinano il successo di molti film presso certi strati di pubblico,  e in particolare di quello che fa più tendenza, il pubblico giovanile. Nato nel 1962 e formatosi come documentarista, Koreeda è stato presto definito il regista della memoria, del ricordo, dell’immanenza del passato in un presente segnato da un lutto che non riusciamo a dimenticare. Aspetti questi evidenti nei tre primi film di finzione del regista.

Maboroshi (Maboroshi no hikari, 1995) si concentra su una donna che deve venire a patti con la morte del marito, finito sotto un treno senza che si sappia se si tratti di un incidente o di un suicidio. After Life (1998) è una storia fantastica in cui si immagina che le persone morte siano invitate a ricordare i momenti più intensi della loro vita per farne una sorta di film da portarsi con sé nell’al di là.  Distance (2001) narra di un  gruppo di persone che si danno appuntamento per commemorare la morte di alcuni loro cari avvenuta nel corso del suicidio di massa di una setta religiosa. A questi tre film possiamo aggiungere il più recente Still Walking (Aruite mo, aruite mo, 2008): un esplicito omaggio a Ozu che racconta del ritrovarsi dei membri di una grande famiglia di tre generazioni per commemorare l’anniversario della scomparsa di uno dei fratelli.

Più defilati rispetto al tema della memoria e del lutto, gli altri tre film di Koreeda,. Se, tuttavia, leggiamo il binomio memoria-lutto, come una forma di mancanza, e introduciamo così il tema dell’assenza, ecco che ritroviamo una categoria concettuale in grado di rappresentare tutto il cinema di Koreeda e di manifestarne così la sua dimensione autoriale. I film sin qui citati hanno tutti a che vedere con l’assenza, attraverso il ricordo che abbiamo di qualcuno o qualcosa che c’era e ora non c’è più. E l’assenza, insieme al venire a patti con quest’assenza, è centrale anche negli altri film di Koreeda

Lo è in Nobody Knows (Dare mo shiranai, 2004), giocato sull’assenza della madre attraverso la storia di quattro fratelli dai dodici anni in giù che, abbandonati dalla stessa madre, devono in qualche m

Air Doll, 2009

odo imparare a cavarsela da soli. Hana (Hana yori mo naho, 2006), l’unico film in costume di Koreeda,  racconta, a sua volta, la storia di un samurai che dovrebbe vendicare la morte del padre, ma che deve venire a patti con se stesso, con la mancanza di quel coraggio, di quella determinazione, di quella convinzione, di quell’abilità nell’uso della spada che sarebbero necessari a portare a termine il proprio compito.

Air Doll (Kūki ningyō, 2009), infine, è un film sulla solitudine, sulla mancanza dell’altro, sulla difficoltà di trovare un qualcuno con cui costruire la propria esistenza. Questa assenza dell’altro è evidente nei due protagonisti: nella bambola che prende vita e, in quanto bambola, è aliena al mondo che la circonda, e nell’uomo che l’ha acquistata, la cui solitudine – intensamente enunciata sin dalle prime immagini del film – è di per sé manifestata dal possesso di una bambola che sostituisce feticisticamente la donna assente. Ma questa solitudine e assenza dell’altro è anche evidente in tutta una serie di altri personaggi secondari cui il film più volte ritorna – e lo fa anche attraverso splendide sequenze di montaggio che si allontanano dalla storia per mostrarci intensi spaccati di alienazioni individuali – a formare un vero e proprio mosaico di solitudini che altro non è che un drammatico quadro del vivere contemporaneo, in Giappone e non solo. Un film triste e drammatico raccontato, tuttavia, anche con quella levità e leggerezza, che sembra essere uno dei tratti principali del cinema dell’ultimo Koreeda.


Amore e sesso nel cinema di Koreeda Hirokazu: “argomento-fantasma” oppure omaggio alla tradizione? Il caso di Aruitemo Aruitemo

di Claudia Bertolè

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A prima vista nei film di Koreeda (almeno fino a Kūki Ningyo (Air Doll) del 2009) l’argomento amoroso/erotico sembra essere una sorta di tema-fantasma, qualcosa che può eventualmente coinvolgere i personaggi mentre si stanno occupando di altro (memoria, perdita di persone care, conflitti generazionali…). Quando però ci si addentra nell’analisi dei suoi film, si scopre che amore/sesso è un tema costante, che attraversa l’intera produzione del regista, strettamente connesso ai suoi temi preferiti. Se ne ritrovano testimonianze in tutti i suoi film, e del resto non potrebbe che essere così, data la profonda sensibilità di Koreeda nel descrivere emozioni e sentimenti.

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Prendiamo ad esempio Aruitemo aruitemo (Still Walking), diretto da Koreeda nel 2008, meraviglioso ritratto dell’intreccio di tensioni all’interno di una famiglia giapponese. La storia ricostruisce una giornata trascorsa insieme dai membri della famiglia: Ryota e sua sorella Chinami, entrambi con le rispettive famiglie, vanno a trovare gli anziani genitori, per celebrare insieme l’anniversario della tragica morte del loro fratello Junpei. Il film è un classico esempio di home drama giapponese, per certi versi più affine forse alla cinematografia di Naruse Mikio – come sottolinea Trevor Johnston nella sua recensione in Sight & Sound – per una rappresentazione più tagliente dell’angoscia dei personaggi, che non a quella di Ozu Yasujirō. L’opera da una parte riflette sul passare del tempo e sulle sue conseguenze, sul senso nostalgico del “ritorno a casa”; dall’altra ci mostra i diversi componenti del nucleo familiare alle prese con nodi di dolore mai sciolti.

Due le sequenze emblematiche sulle quali mi sono soffermata.

aruiteimages-2443183La prima è quella di apertura del film. Chinami e la madre stanno pulendo le verdure che serviranno per la preparazione del pranzo. La scena è senza dubbio un tributo a Ozu: le donne stanno appunto pulendo una carota e un daikon (un grosso tubero dalla forma allungata), le due verdure del titolo del film Daikon to ninjin (Daikon e carote) che avrebbe dovuto essere l’ultimo film girato da Ozu. Mi ha colpita, in primo luogo, che si trattasse di un chiaro omaggio al grande maestro, in secondo luogo che, specialmente le riprese ravvicinate delle mani della figlia, richiamassero alla mente una gestualità erotica.
ozu-7741234Ho ripensato allora a quanto mi era capitato di leggere in un bellissimo libro di Yoshida Kiju, “Ozu’s anti-cinema”, a proposito del modo in cui Ozu affrontava eventuali rappresentazioni di implicazioni sessuali tra i suoi personaggi. In uno dei suoi film, Banshun (Tarda primavera, 1949), decise di inserire la ripresa fissa di un vaso in una sequenza riguardante un padre e la figlia, per evitare che gli spettatori pensassero ad un incesto (la scena si svolge in una stanza d’albergo nella quale i due passano insieme la notte durante un viaggio a Kyōto). Koreeda, nel suo tributo d’apertura a Ozu, non solo evoca il titolo del film non realizzato dal maestro, ma mette in atto anche lo stesso meccanismo di Ozu con la ripresa del vaso, in un certo senso, “al contrario. In un momento di attività in cucina, che in linea di massima non sembra indurre a pensieri di sesso, inserisce un’immagine che chiaramente li evoca. Quest’operazione ha, a mio avviso, un doppio significato: conferma la volontà del regista di offrire il proprio tributo ad un maestro del passato e, allo stesso tempo, introduce fin dall’inizio una chiave interpretativa dell’intero film di carattere erotico/sessuale.

Non è l’unica sequenza del film di questo tipo.

imagesaruite3-5814714Ad un certo punto della serata, mentre stanno cenando, la madre di Ryota decide di far ascoltare a tutti il disco di una canzone pop degli anni Sessanta, “Blue Light Yokohama”. Il ritornello della canzone è in giapponese aruite mo aruite mo (il titolo del film, appunto). Osservando la scena si può solo presumere, in prima battuta, che si tratti di una canzone che ricorda momenti romantici alla coppia di anziani. Qualche scena dopo, però, diventa chiaro che l’intento della donna è un altro. La canzone è infatti quella che la madre di Ryota aveva sentito cantare al marito mentre l’uomo si trovava nella casa dell’amante: con quella canzone la moglie intende allora sottolineare la propria sofferenza per il tradimento del marito. La scena della “rivelazione” ha luogo mentre il padre sta facendo il bagno, la moglie entra nella stanza – non vediamo il suo volto perché la figura rimane sfocata dietro ad un vetro – e svela al marito che lo aveva seguito fino all’appartamento dell’amante e lo aveva sentito cantare quella canzone; noi vediamo l’espressione del volto dell’uomo, che rivela come in quel momento si renda conto di quanto la relazione con l’altra donna abbia pregiudicato il rapporto con la moglie.
A mio parere Koreeda ci dà qui un indizio per risolvere l’”enigma” del film: il titolo del film aruite mo aruite mo non è soltanto connesso all’idea dello scorrere del tempo, ma anche ad un passato torbido che offusca la limpidezza dell’intera vita della coppia. Tutto il film, questo magnifico ritratto familiare, sembra allora proporsi per un’interpretazione diversa, confermata dalla sequenza iniziale.