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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

Bion

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Bion (びおん). Regia e sceneggiatura: Yamasaki Toyoko ; fotografia: Inomoto Masami; suono: Ito Hironori, produttore: Kawase Naomi; interpreti: Monou Akiko, Komizu Touta; durata: 60′, 2010 
Punteggio ★★★   

Una selezione di scene:
Scena 1. Una giovane è incerta, timorosa, se bussare o no alla porta di una abitazione. Poi si decide, bussa. Apre una donna più anziana. Stupore, nervosismo, imbarazzo. Un rapido scambio di battute, accuse tenute dentro per anni. Si capisce subito che si tratta di un ritorno, di una figlia, di una madre. Per motivi non detti, in un passato non precisato, la figlia è stata abbandonata/non voluta dalla madre e ora torna da lei sia per chiedere conto sia per capire se il legame affettivo è recuperabile. Rancore, colpa, disperazione. 
Scena 2. La ragazza, mentre cammina per la strada sotto la pioggia, vede dei panni stesi che si bagnano. Chiama l’abitante della casa per avvisarlo che sta piovendo. Si incontrano qualche altra volta. Un giorno lui sta fabbricando una sedia cui tiene particolarmente e le dice che desidera sia lei la prima persona che si siederà su quella sedia. E’ il suo modo per dichiararle un interesse amoroso. Lei accetta tacitamente.
Scena 3. La ragazza frequenta un corso di cucina. Al termine di una lezione, l’insegnante le regala un cesto di uova. La ragazza ringrazia e mentre torna a casa scaglia per terra le uova una dopo l’altra. E’ un cibo che non manca mai negli obento che le mamme preparano per i bambini in Giappone, emblema dell’affetto materno. La ragazza ha scagliato le uova perché le hanno ricordato un passato felice con la madre che ora ha perduto. Ancora rancore, colpa, rammarico.
Si potrebbe continuare ma queste tre scene emblematiche danno la cifra di un film particolare, antispettacolare, toccante, dove le relazioni interpersonali della società giapponese sono rappresentate molto realisticamente: imbarazzi relazionali, silenzi espressivi, poche parole inequivocabili per chi appartiene allo stesso contesto, sensi di rancore e di colpa che segnano le esistenze.
Sullo sfondo, anzi a fianco dei protagonisti, i suoni e le immagini della natura di Nara, la cui immutabilità materializza il senso di impotenza che pervade il film ma allo stesso tempo, con la sua pacatezza quasi estatica, ne è anche l’elemento mitigante.  «Il paesaggio di Nara – afferma la regista – era così tranquillo che ha donato al mio soggiorno una sensazione di tepore. In particolare ho prestato attenzione agli splendidi suoni della vita quotidiana in modo che il pubblico fosse maggiormente in grado di percepirne l’odore e l’umore. Suoni come quelli legati al cucinare, piallare, tagliare la legna da ardere, a un falò, a una campana, al vento e alla pioggia, al fruscio di un bosco di bambù e al cinguettio di piccoli uccelli. Vi prego di ascoltarli attentamente e trarne godimento». [FP – 28° Torino Film Festival, dicembre 2010]. 

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