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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

Aruitemo, aruitemo (Still Walking)

 *** Flashback ***

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Aruitemo aruitemo (歩いても 歩いても, Still Walking). Regia, soggetto e sceneggiatura: Koreeda Hirokazu; fotografia: Yamasaki Yutaka; interpreti: Abe Hiroshi, Natsukawa Yui, Kiki Kirin, Harada Yoshio, Yū; durata: 114′; prima: 28 giugno 2008.
Link: Sito ufficiale – Mark Schilling (Japan Times) – Roger Ebert (Chicago Sun-Times) – Roger Macy (Midnight Eye)
PIA: Commenti: 4/5   All’uscita delle sale: 78/100
Punteggio ★★★1/2   
Una volta l’anno la famiglia Yokoyama si riunisce per onorare la morte del primogenito Junpei, tragicamente annegato nel corso di un incidente durante il quale salvò la vita ad un bambino. A commemorare la perdita ci sono gli anziani genitori e i due figli minori, il taciturno Ryota e l’estroversa Chinami con le rispettive famiglie. Chinami ha avuto due figli, mentre Ryota, rimasto vedovo, si è risposato con Yukari, giovane madre del piccolo Atsushi. Junpei avrebbe dovuto seguire le orme paterne, diventando anch’egli un rispettabile medico, ma il destino l’ha impedito. Ryota è da sempre in conflitto con il capo famiglia e di intraprendere la carriera di dottore non ne ha mai provato desiderio. Chinami, dal canto suo, date le precarie condizioni economiche in cui riversa, non può far altro che sperare che la madre si decida ad accettare lei e la sua famiglia a vivere sotto lo stesso tetto. In un lungo e caldo weekend estivo si risvegliano e si scontrano rancori sopiti, desideri inespressi, delusioni, discrepanze generazionali, speranze di riconciliazione.

Kammerspiel intenso, conflitti generazionali, incomprensioni e insoddisfazioni. La famiglia descritta da Koreeda porta con se una serie di traumi e rimpianti, descritti dall’autore con la maestria e la delicatezza espressiva che caratterizza il suo consueto genere di cinema, emotivamente coinvolgente, potente attraverso un discorso pacato, contenuto, privo di enfatizzazioni indotte o di facile commozione. Il dramma si dipana lentamente, sotto il nostro sguardo contemplatore, attraverso i lunghi dialoghi dei protagonisti, spesso interrotti nel momento del disvelamento, o accennati nel momento di confessare un risentimento, un’inadeguatezza. La distanza risiede nello sguardo, nel rifiuto empatico, nell’aderenza ai valori della tradizione, nella reticenza all’adeguarsi ai bisogni attuali, nell’assaporare indirettamente un tempo che non è più e che non potrà ripetersi. La nostalgia del ricordo, il rimpianto per la scelta intrapresa, il dolore per la perdita di un figlio, Koreeda miscela temi intimi, un microcosmo di sentimenti, di legami, di tradizione, di necessità e rispetto. La regia lavora sul non detto, il non espresso, accentuando la sottrazione rappresentativa, la descrizione psicologica nasce di riflesso, nei silenzi, nelle movenze, nella reciprocità degli sguardi negati, una narrazione ove domina l’assenza come forza aggregante, il non presente come elemento di sconforto e di confronto. 
Lo stile rappresentativo si dispone su binari classici, mentendosi rarefatto, frontale, prediligendo piani d’insieme, totali di ambienti, relazionando tra loro i personaggi, tracciandone distanze, prossemiche. Il cibo, il disporsi intorno ad un tavolo, il confronto con i genitori, la laboriosità dell’anziana madre-nonna, il distacco introverso ed il prestigio del padre-nonno di famiglia si rapportano ai figli ormai adulti, ai nipotini ed all’incombenza del passato, la tragica dipartita del primogenito, reale erede del patrimonio paterno, destinato a proseguirne le orme, intraprendendo la carriera di medico, percorso poi rifiutato dal secondogenito Ryota ed entrato in perenne conflitto con la figura paterna, nonostante il recondito attaccamento emotivo e la celata ammirazione. L’incedere delle figure senili viene ritratto dalla regia tramite l’ausilio di piani sequenza descrittivi, i cui si manifesta ampiamente l’avanzare precario dell’aspetto umano, della fatica, del retaggio del passato che porta con sé. L’anziano patriarca passeggia lungo la strada, lo accompagna un piano laterale, alle sue spalle, di fianco, una lunga scalinata, un elemento che si rivelerà ricorrente nel film. L’anziano patriarca si ferma sul ciglio della via, davanti a lui scorre la carreggiata dove sfrecciano le automobili. Alla sua sinistra, in alto, il ponte sopra elevato congiunge i due lati della strada che si trova di fronte a lui, una donna sale le scale, l’uomo si volta verso destra proseguendo il suo percorso, oltre il margine del quadro, due autovetture sfilano visivamente nella direzione opposta, scomparendo nel fuoricampo sinistro. Attraverso un uso attento del profilmico e delle sue componenti in movimento Koreeda calibra una sequenza composta da linee tensive e incroci di movimento, che attraverso il loro intersecarsi e sovrapporsi comunicano quel senso di transitorietà, passaggio, difficoltà e distanza che caratterizzano tanto l’animo del soggetto quanto i contrasti relazionali che stanno per dipingersi sullo schermo. Lo stesso ambiente, verrà ripreso circolarmente nella parte finale del film, divenendo luogo di azione e spazio vitale generazionale.

Le figure anziane possiedono una facciata aspra, coriacea, appaiono restie negli affetti, sono giuste e generose ma severe con i figli, distaccate nei confronti di chi potrebbe compromettere l’equilibrio famigliare e contribuire alla sua disgregazione, si noti l’atteggiamento educato ma distante e marginalizzante nei confronti della seconda moglie di Ryota e del suo bambino, il piccolo Atsushi. I legami di sangue si fanno evidenti, l’algida cordialità necessaria nei confronti dell’ospite manifesta. Le figure genitoriali appartengono ad un mondo del passato, legato alla tradizione, al prestigio, in cui il nucleo famigliare rappresentava una componente di primaria importanza, affetta da crisi nell’epoca contemporanea, da preservare ad ogni costo, ove i ruoli erano fondamentali e ben definiti: posizione maschile, onore nella mansione lavorativa, dedizione materna, custode del focolare domestico, cura dei figli. Sotto questo punto di vista si sviluppano ampiamente le dinamiche classiche, di matrice giapponese, dell’uchi e del soto, ovvero dell’appartenenza al gruppo e la sua inclusione e la non appartenenza al gruppo e la sua tendente esclusione e distacco. Alla tradizione appartiene inoltre la componente spirituale che si concretizza nella farfalla gialla che nel corso della notte sopraggiunge a visitare la dimora della famiglia, materializzando simbolicamente la presenza del primogenito defunto a lungo rimembrata nei dialoghi e nei sentimenti. La madre ne è certa e mentre il lepidottero svolazzando si posa sulla fotografia di Junpei sulla mestizia generale sopraggiunge lo stupore. La compresenza di esseri viventi e defunti è componente usuale del cinema di Koreeda, si pensi al marito suicida in Maboroshi no hikari (1995) e l’aleggiare della sua presenza nello svolgersi della storia, anche in quest’occasione il trapasso diviene leitmotiv per una ricerca introspettiva ed esistenziale da parte della protagonista tragicamente rimasta vedova. 
In rapporto ai nonni e al complessivo mondo delle figure adulte, l’autore dipinge le movenze, la spensieratezza e l’agire dei bambini. Scevri del risentimento, affrancati dai pregiudizi nei confronti del prossimo i bambini agiscono in base al percepito, al mondo che li circonda all’emozione che scatena la situazione loro imposta dall’universo adulto. Come accade in una delle sue opere precedenti, Daremo shiranai (Nobody Knows), la figura umana del bambino è osservata dal regista con maggiore compartecipazione emotiva, il bambino è custode della semplicità, è l’osservatore silente, che si domanda il senso, il significato dell’agire di cui è elemento: esemplare lo sguardo di Atsushi nel corso della visita al cimitero durante la quale l’anziana Toshiko bagna la tomba del figlio defunto per apportarvi refrigerio. La loro figura si rivela dunque come contrapposizione, è attraverso di loro che si esprime il paradosso del dramma e del dolore, come avviene nella sequenza dell’omaggio reso dal ragazzo che è stato salvato da Junpei, il primogenito che ha perso la vita nell’impresa. È grazie allo sguardo del piccolo Atsushi sul quale fa raccordo la mdp che notiamo l’inesattezza, l’incongruenza della situazione, il sudore che emana il corpulento giovane, il calzino sporco nella sua parte inferiore, le risate che il bimbo trattiene a stento, a cui si contrappone vivo il dolore di una madre, l’evidente disprezzo del vecchio capofamiglia mantenutosi in disparte. Un dettaglio che era stato anticipato, richiamato precedentemente, quando la regia esce dall’ambiente recluso dell’abitazione per osservare i tre nipotini che si avventurano all’esterno, mentre corrono e giocano lungo la strada.  Koreeda ne tratteggia le movenze a figura intera, per poi dedicarsi ai dettagli del corpo, tramite i quali racconta i suoi piccoli protagonisti: dettagli di piedi, che si agitano in ciabatte più grandi di loro, mani che si innalzano verso il cielo per ghermire e un ramo fiorito, lo sfiorano, lo toccano, lo afferrano.

Uno stile elegante che predilige gli interni, le geometrie delle stanze, i riquadri generati dalla profondità di campo, il corridoio dell’ingresso, soglia simbolica e materiale, il dettaglio del focolare domestico, gli utensili della cucina, la ripetitività dei gesti. Uno stile rappresentativo che affonda le proprie radici nel cinema di Ozu, inevitabile il rimando a capisaldi come Tōkyō monogatari (Tokyo Story) (1953), al quale ci si può rifare per un raccordo non solo tematico, risiedente nel contrasto generazionale e nel motivo della visita e dell’omaggio, ma anche stilistico, nella frequenza costante dell’utilizzo di inquadrature frontali, piani d’insieme, ambienti intimi e riservati sui quali la regia si sofferma ed indaga. Un richiamo maggiormente contemporaneo è inoltre rinvenibile nelle opere di Naomi Kawase, come Moe no suzaku, regista attenta alla descrizione di drammi famigliari inseriti in contesti naturali, distaccati dalla città e dalla modernità, legati ad esistenze semplici ed autentiche in cui il progresso si intromette come forza destabilizzante e disaggregante. Della Kawase Koreeda pare recuperare ambienti e paesaggi, l’incedere della figura umana nel contesto naturale, il verde, la calura estiva, strade, percorsi adombrati dagli alberi. Il richiamo più evidente si esplicita nella visita al cimitero, dove la camera osserva i personaggi a distanza tramite un piano sequenza che ne ritrae il cammino su una lunga scalinata e per una tortuosa discesa. La natura pervade la scena, l’incedere lento degli anziani coniugi sottolinea e amplifica la fatica ed il protrarsi dell’esistenza, che sebbene afflitta da drammi e difficoltà esige di procedere, avanzare, ancora e ancora. [LC]

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7 commenti su “Aruitemo, aruitemo (Still Walking)

  1. Mi complimento con l'autore della recensione che è davvvero riuscito ad evocare lo spirito del film. Mi permetto solo di aggiungere una cosa già nota, a riguardo del rapporto col cinema di Ozu. L'inizio del film in cui la madre anziana e la figlia puliscono carote e daikon (una sorta di grande ravanello che è una costante della cucina giapponese) è un chiaro omaggio a quello che avrebbe dovuto essere l'ultimo film di Ozu, Daikon to ninjin (Daikon e carote), realizzato poi, dopo la sua morte, da Shibuya Minoru nel 1965.

  2. Sono in larga parte d'accordo con la (bella e completa) recensione. E' un film che ho visto e rivisto, forse uno dei miei preferiti di Koreeda. Mi permetto anch'io di fare solo un'osservazione, in particolare sulle due figure anziane. C'è un momento nel quale il silenzio e il dominio dell'assenza vengono, a mio parere, genialmente incrinati. Si tratta della sequenza che riprende l'anziano padre che sta facendo il bagno. La moglie entra a portare gli asciugamani, ma la sua figura rimane celata dietro ad un vetro e sentiamo la sua voce. In sostanza la donna svela uno degli enigmi del film: rivela infatti al marito che la canzone "Blue Light Yokohama" (che ha voluto sentire a cena insieme al figlio) è proprio quella che ha sentito cantare al marito stesso il giorno in cui lo ha seguito fin davanti alla casa dell'amante di lui… e il cui ritornello fa proprio "aruite mo aruite mo", titolo del film. Mi sembra un momento importante del film, perchè getta non poche ombre sul passato della coppia e dà una diversa chiave di lettura ai rapporti/conflitti interpersonali nell'ambito della coppia stessa.

  3. Grazie a tutti per i riscontri positivi.
    Non conoscevo il film di Ozu citato da Genji, è stato un appunto molto curioso.
    Certamente interessante il punto di vista sollevato da Claudia,
    che esprime bene quei lati oscuri che appartengono ai personaggi del film, in particolar modo al rigido capofamiglia, la cui rettitudine diviene inevitabilmente compromessa; come spesso accade i veri pilastri portanti sono le figure femminili.
    Giacomo, appena hai modo dai priorità al film, non ne rimarrai deluso.
    LC

  4. bella recensione e bel film, grande a mio parere la performance di Kiki Kirin. Da applausi l`uso della luce, specialmente (se non ricordo male) nelle inquadrature della porta d`entrata. L`unica cosa, il finale poteva essere migliore, mi e` piaciuto un granche`…
    ps: se seguite Kore`eda su twitter e` interessante notare come fotografi in continuazione, e come parli spesso e volentieri di cibo…

  5. Bellissimo film, toccante e molto delicato. Un pezzetto di vita familiare raccontato in modo semplice, intenso e penetrante. Un film che fa riflettere ed emoziona, a volte, senza capire esattamente il perché…

    Complimenti per l'ottima recensione.

    Coraline

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