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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

Hazard

hazard-7426602Hazard (ハザード, Hazard).  Regia: Sono Sion. Sceneggiatura: Sono Sion, Kumakiri Kazuyoshi. Fotografia: Hiro’o Yanagida Montaggio: Shūichi Kakesu. Musica: Harada Tomohide. Interpreti e personaggi: Odagiri Jō, Jai West, Fukami Motoki, Ikeuchi Hiroyuki, Hagiwara Sayako, Richard Brundage, Austin Basis , Carson GrantDurata: 103’. Uscita nelle sale giapponesi: 11/11/2006 
PIA: Commenti: 2,5/5  All’uscita delle sale: 45/100 
Link: Mark Schilling (Japan Times) – Chris Magee (Toronto J-Film Pow-Wow) – John Berra (VCinema) – Tomblands 
Punteggio ★★★★   

Questo film verrà presentato nella rassegna “Rapporto confidenziale” al 29° Torino Film Festival (29 novembre-3 dicembre). In tale occasione “Sonatine” pubblicherà in collaborazione con il Festival il volume “Il Signore del caos. Il cinema di Sono Sion”, contenente un’intervista inedita a Sono, un’ampia introduzione alla sua opera, alcuni saggi critici e le schede di tutti i film proiettati nella rassegna.

All’origine di Hazard c’è un fatto di cronaca, un omicidio avvenuto in un club sadomaso newyorkese che spinge Sono Sion ad ambientare a New York la sua storia. 
A riprese già iniziate, però, stravolge la sceneggiatura e il film diventa una sorta di diario di viaggio del protagonista Shinichi, che, per trovare se stesso, deve perdersi nel cuore ruvido di un’America mitizzata, violenta, ingiusta, razzista ma che vive un fermento ininterrotto e coinvolgente, tutt’altra cosa rispetto al Giappone “addormentato ma insofferente”, come dice più volte nel corso del film la voce di un bambino che accompagna le varie tappe di questa avventura. Apatico e inquieto è, in realtà, lo stesso Shin, immobile, anzi, privo di reazioni, isolato nel suo universo, con lo sguardo distratto dalla realtà del mondo, almeno fino a quando realizza che il suo futuro è a New York. Sono si concentra su di lui fin dal primo momento, personaggio “marginale” nel senso prediletto dal regista giapponese, vale a dire di osservatore acuto e cercatore suo malgrado, che cede a noi i suoi occhi e veicola il nostro sguardo verso dettagli altrimenti destinati a perdersi. Il risultato è il punto di vista vibrante di una macchina da presa in continuo movimento e al tempo stesso complice, vicina e lontana, come il protagonista che cerca la giusta distanza tra sé e le cose che lo circondano e la giusta vicinanza con le persone che incontra. I suoi gesti sono domande lasciate a perdersi nell’aria, sognando di volare e di fuggire, prima di tutto da se stesso, da quel fratello gemello che dice di aver lasciato a Tokyo “identico a me ma diverso, codardo e sempre spaventato dalla vita”. Nell’instancabile corsa di Shin, Lee e Takeda e nella ripetizione ritmata di fughe e scorribande, si nasconde un ritratto attento dei tre protagonisti, di cui Sono si prende cura definendo ognuno nella precisione del suo carattere e dei rispettivi desideri. Ecco perché la narrazione appare frammentaria: in questa linea sottile che attraversa il film, le “interferenze” hanno lo scopo attivo di scavare nei pensieri e conoscere più a fondo i tre ragazzi. Per farlo, Sono agisce sul tempo, lo ferma in una sorta di sospensione continua: ralenti, flashback, immagini oniriche rappresentano il desiderio di spiazzare la continuità e seguire un altro modello di narrazione, basata sui personaggi e non sulle storie. A questo servono gli innumerevoli dettagli sul paesaggio umano e urbano che i tre vivono e attraversano. Le pozzanghere sulle strade, gli uomini seduti ai bordi dei marciapiedi, le buste di plastica che sventolano sugli alberi della periferia, gli edifici diroccati, e poi i dettagli sui volti, gli occhi, gli oggetti, certe parole sottolineate. Oppure le panoramiche sulla città, descritta come a voler rendere omaggio ad un’immagine di New York offerta da certo cinema indipendente americano degli anni Ottanta e Novanta, con le veloci trasformazioni, le vertigini, i silenzi improvvisi, la sgranatura del video che sembra ruvidezza.

Pare che Sono abbia girato Hazard senza chiedere le autorizzazioni e i permessi necessari a filmare in esterni, su un set contraddistinto da molte disavventure e problemi economici che si prolungarono negli anni, al punto che il film, girato nel 2002, trovò finalmente la strada della distribuzione solo nel 2005 e uscì nelle sale giapponesi alla fine del 2006. Questa condizione di “clandestinità” si riflette sulla forma, e l’uso della macchina a mano senza luci artificiali si rivela essere una scelta decisiva per la riuscita di un film capace di costruire un senso di profonda intimità, nonostante la frenesia e la vita apparentemente tutta esteriore condotta dai tre amici. I versi di Walt Witman urlati contro i grattacieli illuminati di New York, sono un’immagine perfetta per rappresentare tutto il film, non solo perché in essa c’è la splendida tentazione poetica di ogni straniero di definire questa città nei successivi contrasti tra la periferia e il suo cuore, ma anche per l’idea di padronanza degli spazi che se ne ricava. Non c’è conflitto, ma la capacità di dominare un ambiente che dovrebbe essere loro ostile. Avere New York a portata di mano e poterla guardare da lontano li fa sentire parte vitale di un universo che hanno sempre sognato, ma al tempo stesso li mette nella condizione di avere alle spalle lo spazio necessario alla fuga. Come bambini in un enorme Luna Park (e c’è la musica a ricordarcelo con esatta puntualità), dove ci si diverte senza pensieri, ma dove si impara a riconoscere tristezze ed inquietudini.
“Questi riescono solo a vedere un penny come tale. Io invece, posso vedere questo penny come 100 dollari, come un milione di dollari” dice Lee a Shin dopo che un vagabondo ha rifiutato il loro penny. Sarà proprio questa la più grande lezione che il giovane porterà con sé tornando a casa. Quel penny invisibile è un piccolo oggetto capace di spingere il film oltre il suo stesso limite. Tutto il finale si compone come un’unica lunga sequenza in cui Shin ripercorre all’indietro la sua avventura newyorkese, ritrovando i luoghi e le persone che ha incontrato. Tutto si fa lentamente più distante, tutto sembra essere precipitato in un lontano passato. [Grazia Paganelli]
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