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Kurōn wa kokyō wo mezasu (The Clone Returns Home)

 *** Flashback ***
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Kurōn wa kokyō wo mezasu (クローンは故郷をめざす, The Clone Returns Home). Regia, soggetto e sceneggiatura: Nakajima Kanji; fotografia: Urata Hideho; montaggio: Mimeta Ken; musica: Yamashita Yūta; interpreti: Oikawa Mitsuhiro, Nagasaku Hiromi, Ishida Eri, Shimada Kyūsaku; produzione: Agung; durata: 110′; uscita nelle sale giapponesi: 10 gennaio 2009.
Link: Sito ufficialeMarc Saint-Cyr (Toronto J-Film Pow-Wow) 
PIA: Commenti: 3,5/5  All’uscita delle sale: 65/100 
Punteggio ★★★1/2   

The Clone Returns Home è un film che richiede pazienza, è un invito alla contemplazione, alla meditazione sul passato e il futuro, sulla morte e lo sconforto, sull’identità e la memoria. Nakajima Kanji si accosta al suo primo lungometraggio cinematografico con lirismo, con un’enfasi compassata, descrivendo attraverso uno stile a metà tra il tratto fantascientifico e il dramma esistenziale intimista il trauma della perdita famigliare e la sua impossibile conciliazione. Lentamente, si delinea sullo schermo l’esacerbarsi del sentimento di colpa, il tentativo di ritrovare la propria identità tramite una profonda riflessione sull’incolmabile vuoto che separa l’uomo dai suoi cari perduti e i loro affetti negati.  
Takahara Kohei è un astronauta che porta con sé l’insanabile ferita della perdita del fratello gemello, tragicamente annegato anni prima nel corso delle loro scorribande di bambini. Un tormento a cui si somma, nel presente, la morte di una madre a cui era profondante legato. Desideroso di non abbandonare la moglie e su suggerimento dei suoi superiori, l’uomo acconsente alla essere clonato per continuare a esistere anche in caso di incidente e, durante un’operazione in orbita, forse per contingenza o forse per volontà, la fatalità si compie. Un nuovo Kohei ritorna dunque in vita, ma qualcosa non è andato per il verso giusto: i ricordi si frappongono e nel giovane si manifesta imprescindibile il dolore per il fratello scomparso ed il rimorso per il gesto compiuto che generò involontariamente la tragedia. Il clone inizia così un viaggio di formazione nei confronti di un passato che lentamente riemerge, nel tentativo di recuperare e riconciliare la propria identità infranta.  
La modalità rappresentativa di Nakajima è un collocarsi a distanza dai suoi personaggi, un mantenersi in disparte, contemplando l’evolversi degli eventi con sguardo calmo, senza impeti di compassione. Nei personaggi vi è una certezza a cui si somma rassegnazione, ineluttabilità dell’accadimento, implosione emotiva, una difficoltà nel relazionarsi alla crudeltà del reale che si tenta di rifiutare percorrendo la via dell’ammenda. È uno sguardo che si posiziona lontano, ma non per questo privo di delicatezza, quello che osserva dall’alto i due fratellini mentre giocano sulle sponde del fiume o si inseguono di fronte alla loro abitazione in uno scambiarsi e un sovrapporsi di figure, l’una intenta a rincorrere l’altra, a replicarne le movenze. La regia delinea splendidi passaggi che paiono sospesi nel tempo, indugia sui suoi piccoli protagonisti, lasciando che sia la continuità del piano sequenza a impregnare gli eventi di quel senso di attesa e caducità che contraddistingue la tragedia. Riscontri di tali scelte stilistiche sono rappresentate dal segmento del dispetto orchestrato dal piccolo Kohei al fratellino Noboru (quest’ultimo inciampa a causa di una buca scavata nel terreno dal suo gemello), il cui epilogo è metafora di quella distanza incolmabile che separa il Kohei astronauta dal fratello perduto e dalla madre morente del tempo presente. In punizione per il gesto compiuto, Kohei si sofferma di fronte alla sua abitazione, la camera è immobile alle sue spalle nel dipingere un quadro efficace generatosi in semisoggettiva: un fumo vaporoso permea l’ambiente, il bimbo è mortificato per l’accaduto, mentre sullo sfondo le figure famigliari, rivolte verso di lui, sfumano nei loro contorni. Una simbolica evanescenza in cui si delinea una correlazione tra gli eventi a seguire: la dipartita e il definitivo terreno distacco del fratello e della madre, la necessità di un riscontro che pare la richiesta di un’assoluzione.
La foschia, che si intromette all’interno di numerosi segmenti, è parte di un concatenazione di componenti naturali che l’autore utilizza per conferire un carattere metafisico alla narrazione. Ampio spazio è dedicato al defluire dell’acqua, al piegarsi della vegetazione sotto lo spirare del vento, all’estendersi all’orizzonte di verdi distese che si trasformano in territori da esplorare, percorsi da intraprendere, come quello compiuto da Kohei alla costante rivisitazione del proprio passato. La natura viene plasmata in relazione ad una regia che invoca il manifestarsi del dramma attraverso un dialogo di sottrazione, di raccordi di sguardi dolenti, di protrarsi irreale di tempo e di molteplici elementi che assumono un significato simbolico di ritorno e rimando: le carote del piatto non consumate, l’aereoplanino di Noboru, il bicchiere sonante e la sua circonferenza, la tuta spaziale di Kohei, iconico fardello che grava sulla coscienza. La rappresentazione della morte di Noboru è un buon esempio di tale ricerca introspettiva. Descrivendo con trasporto, quasi una visione di sogno, dove lo sguardo della macchina da presa, posandosi ora sui corpi, recupera il precedente vuoto della distanza, Nakajima soffoca il dolore di una madre nell’assenza di suono in campo estendendone la portata nell’uso del ralenti. Un pianto inudibile, mediato dallo sguardo del figlio, il cui dolore non trova conforto nel trascorrere del tempo, ma anzi, si trasforma in senso di colpa che mantiene vivo il ricordo della perdita (nel passato) e della privazione (nel presente). L’autore sottolinea il reiterarsi del tempo con l’ausilio di metafore articolate, evidenziando il sovrapporsi delle identità (quella di Noboru su Kohei) e l’impossibilità di raggiungere il prossimo, esprimendo la propria presenza e il bisogno di considerazione (le grida dei due fratelli, udite ma non corrisposte, rivolte alla madre sulla soglia dell’ingresso). Ancora una distanza incolmabile, un’invocazione che genera quell’indefinibile “risonanza”, di cui narra The Clone Returns Home, che è sintomo percettivo di presenza ed al contempo insanabile distacco. La “risonanza” rende il clone uno spirito liminale, un essere che mantiene in sé l’attaccamento profondo al vivente poiché vincolato ad un trauma irrisolto della sua vita.
Anche l’autore, come i suoi personaggi, sembra porsi nel bilico, nel tentativo di trovare una definizione che possa rispondere ai quesiti dell’esistenza, sbilanciandosi dapprima su posizioni fantascientifiche per poi approdare ad interpretazioni ultraterrene, mantenendo salda l’analisi del sentimento umano. Per tal motivo, pare adeguato accostare la sua poetica non solo al Solaris(1972) di Tarkovsky che sovente – e a ragione – è stato citato e di cui acqua, natura, ritorno, natali, nonché parte della sintassi filmica, sono un esempio più che evidente, ma anche al Sokurov di Mother and son (1997), per la descrizione del rapporto materno e, in particolar modo, per i passaggi che ritraggono il Kohei adulto percorrere mulattiere che si inoltrano nella profondità di campi solitari e incontaminati. Alle evocazioni del cinema euroasiatico si sommano poi le componenti proprie della sua cultura d’origine e se Nakajima è affine per sensibilità a Oguri Kōhei ma meno cupo di questi, è grazie ad un carattere fantastico che porta alla mente l’Ugetsu monogatari di Mizoguchi (nel rapporto con il defunto e il ritorno alla dimora fatiscente) che l’autore edifica la sua particolare poetica in grado di fondere passato e presente, fantascienza e spiritualità, richiesta di perdono e tentativo di comprendere se stessi. [Luca Calderini]


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