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Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

Itoshiki Sona (Sona the Other Myself)

sona-1890515Itoshiki Sona(愛しきソナ, Sona the Other Myself).  Regia e soggetto: Yang Yong-hi. Montaggio: Jang Jin. Produzione: Choi Hyun-mook per Wahaha Hompo, Zio Enterteinment. Durata: 82’. Anno: 2009. Anteprime ai festival: Pusan 10 ottobre 2009, Berlino 12 febbraio 2010. Uscita nelle sale giapponesi: 2 aprile 2011
Link: Sito ufficiale –  Mark Saint-Cyr (Toronto Jfilm-Powwow) – Cathy Munroe-Hotes (Nishikata eiga)
PIA: Commenti: 3,5/5   All’uscita delle sale: 72/100
Punteggio ★★★1/2   
 Sona the Other Myself  è  l’ideale seguito di Dear Pyongyang (2005) in cui la zainichi(come sono chiamati i figli di immigrati coreani residenti in Giappone) Yang Yong-hi raccontava, nella forma del documentario, la vita del padre, militante a sostegno della Repubblica Popolare Democratica di Corea.  Se il primo dei due film si ambientava soprattutto a Osaka, il secondo fa di invece di Pyongyang il suo luogo privilegiato. La Sona del titolo è la nipote della regista, che lì vive insieme ai suoi familiari. Il film si struttura lungo un periodo che va dal 1995 al 2004 e documenta, soprattutto, le visite di Yang Yong-hi alla nipote. Il metodo della regista è lo stesso del film precedente: la videocamera non è mai nascosta, né allo sguardo dello spettatore, né a quello di chi è ripreso, divenendo così un elemento che interagisce con le situazioni rappresentate; dietro il suo obiettivo, la regista dialoga con i vari “personaggi” che a loro volta le si rivolgono apertamente. L’intento principale della Yang è quello di rappresentare la nipote Sona come un suo possibile alter ego, vedendo nella  realtà della ragazza (la vita di questa a Pyongyang) una situazione che avrebbe potuto anche essere la sua (se solo il padre avesse deciso di mandare anche lei, come fece per i suoi fratelli, a vivere in Corea del Nord). Ciò si traduce in uno sguardo più generale sulla società nordcoreana, che passa attraverso le riprese degli esterni della capitale, con i suoi edifici che ricordano i palazzoni dell’architettura sovietica, le strade ancora quasi prive di traffico (uno dei pochi aspetti positivi del socialismo reale), le celebrazioni pubbliche in onore del Caro Leader Kim Jong-il («Da venti anni sempre le stesse», commenta la voce fuori campo della regista). Le differenze fra la vita in un paese a regime totalitario e quella in una società democratica passano attraverso piccoli fatti e osservazioni sottili, come quando la regista fa notare alla nipote che il Mickey Mouse che ha disegnato sulle calze è un personaggio americano e questa risponde che loro «non lo sanno». Oppure quando Sona invita la zia a spegnere la sua videocamera e il dialogo successivo è rappresentato da una serie di didascalie  che si sovrappongono a uno schermo nero: qui la Yong-hi cita alcuni famosi musical hollywoodiani, come Chicago e Cabaret, e la risposta della nipote si traduce in tre punti interrogativi, a indicare la sua totale ignoranza al riguardo. Altrettanto rilevanti le scene in cui, grazie alla presenza della zia, la piccola Sona può recarsi nei negozi riservati alla valuta straniera (in particolare allo yen), e, soprattutto, quella del ristorante, dove la ragazza medita e discute a lungo prima di decidere che cosa ordinare (la scelta cadrà sulla pizza e il topokki, un tipico piatto sudcoreano che la bambina assaggia qui per la prima volta nella sua vita). Un altro momento importante è quello in cui Yang accompagna Sona a scuola, e davanti al cancello dell’edificio un gruppo di bambini, con i loro immancabili foulard rossi, si avvicinano alla videocamera con uno sguardo in cui la curiosità si mescola al timore per un oggetto che non appartiene di certo al loro mondo quotidiano. L’estraneità che essi vivono non è però qualcosa di esclusivamente peculiare a loro, dal momento che – come la stessa regista confessa –  è un sentimento che anche questa, dietro la sua videocamera, avverte in relazione alla realtà che le sta davanti (quasi a voler sottolineare le difficoltà stesse del “fare documentario”). [Dario Tomasi]
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2 commenti su “Itoshiki Sona (Sona the Other Myself)

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