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Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

Kazoku no kuni (かぞくのくに, Our Homeland)

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Kazoku no kuni (かぞくのくに, Our Homeland). Regia e sceneggiatura: Yang Yong-Hi. Fotografia: Toda Yoshihisa. Musiche: Iwashiro Taro. Interpreti: Andō Sakura, Arata, Yang Ik-June, Miyazaki Yishiko, Tsukayama Masane, Kyono Kotomi. Produttori: Satō Junko, Koshikawa Michio. Durata: 100 minuti. Anno: 2012 – 62° Berlin Film Festival (9-19 febbraio 2012)
Punteggio ★★★

Una figura di donna forte e coraggiosa che combatte la sua battaglia personale contro un sistema e un destino, che schiacciano ragioni e sentimenti (interpretata da una convincente Andō Sakura, già protagonista in Love Exposure di Sono Sion), un uomo piegato su se stesso a causa di quello stesso sistema che lo ha reso una vittima “che non pensa, che vuole solo sopravvivere” (Arata, lo ricordo alle prese con un personaggio enigmatico in Distance di Koreeda) e che per gran parte del tempo appare preda di un frastornamento che lo rende inabile a qualsiasi reazione.
Sono loro i due fratelli, Rie e Son-Ho, protagonisti del primo fiction film di Yang Yong-Hi presentato in anteprima mondiale alla 62ma Berlinale, dopo i documentari Dear Pyongyang  del 2005 e Sona, the other myself del 2009, già incentrati sulle vicende della famiglia della regista, divisa tra Giappone e Corea del Nord (Paese nel quale a Yang Yong-Hi è al momento vietato rientrare, ma dove si trovano i suoi fratelli).
La vicenda – che ricalca ancora quella della regista e della sua famiglia – prende spunto dal periodo, intorno alla fine degli anni ’50, durante il quale molti coreani residenti in Giappone furono indotti a trasferirsi in Corea del Nord, allettati dall’idea di maggiori possibilità, per esempio in termini di istruzione, di maggior benessere e soprattutto della fine delle discriminazioni nei loro confronti. Son-Ho, il fratello di Rie, è appunto uno di quelli che erano stati rimpatriati, giovanissimo, mentre la famiglia era rimasta in Giappone. Dopo 25 anni di separazione il ragazzo ottiene, anche tramite l’associazione di coreani residenti in Giappone nella quale lavora il padre, il permesso di tornare nel Paese dove risiede la famiglia per un visita di tre mesi durante la quale dovrebbe essere sottoposto a trattamenti medici per una grave malattia che gli è stata diagnosticata. Dopo pochi giorni dall’arrivo però, Son-Ho, guardato a vista durante il suo soggiorno giapponese da un “supervisor” nordcoreano (interpretato dall’ottimo Yang Ik-June), sarà costretto, a causa di un ordine improvviso ed inspiegabile, a fare rientro in Nord Corea.
Un film coraggioso (la stessa regista, nel presentare la propria opera, ha ammesso di essere consapevole che il suo lavoro possa far diminuire le possibilità di rivedere i suoi familiari, ma ha aggiunto di preferire la denuncia, per dimostrare loro il suo amore, rischiando comunque così facendo di non poterli più riabbracciare), struggente, a tratti lievemente melodrammatico, che “dispiega” i vari nodi delle relazioni in modo efficace: quella, intensa, tra i due fratelli così diversi per carattere e approccio alla vita, quella dei figli nei confronti di un padre rigido e intransigente – che Son-Ho affronta in un unico drammatico momento prima parlandogli da dietro una tenda e poi lasciando che la rabbia sfugga al controllo -, quella nei confronti di un sistema politico-burocratico, che non sente ragioni di umanità e calpesta le speranze. Non mancano gli accenni nostalgici ad un passato ormai definitivamente perduto, ai tempi degli studi, durante una riunione con un gruppo di vecchi amici tra i quali anche Suni, il primo amore di Son-Ho. La regista indugia sui due personaggi, “avvolge” Son-Ho, appena arrivato nel quartiere, mentre scende dall’auto e percorre a piedi gli ultimi metri che lo separano dalla casa dei suoi e dalla madre, apparsa sulla soglia; lo “schiaccia” contro una parete di palloni colorati, in un negozio nel quale si è recato per comprare un regalo da portare a casa al proprio figlio, accentuando così il contrasto col pallore del suo volto che lo fa apparire un fantasma di desolazione. Rie – evidente alter ego della regista – è invece quella che smuove le acque della rassegnazione dei familiari: in una bella sequenza esce da casa per affrontare il “vigilante” e proprio in quel momento le foglie della pianta rampicante che ricoprono interamente le pareti esterne  dell’edificio si muovono investite da un vento improvviso; è ancora lei che accusa apertamente il padre, lei che cerca di opporsi – fisicamente – alla partenza del fratello. Nella scena che conclude il film la ragazza va a comprare quella valigia che a Son-Ho piaceva e che rappresenta l’idea stessa della partenza, delle nuove opportunità, ma anche il peso angoscioso della perdita, che trascina con sé per la vita chi è costretto a subirla. [Claudia Bertolè]

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