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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

Akumu tantei (悪夢探偵, Nightmare Detective)

 

La X edizione dell’Asian Film Festival di Reggio Emilia (16-24 marzo 2012) dedica la retrospettiva a Tsukamoto Shin’ya, che sarà presente al Festival e riceverà un premio alla carriera. In occasione di tale importante evento, Sonatine pubblica le schede critiche di tutti i film di Tsukamoto, che andranno a configurare uno Speciale Tsukamoto sempre consultabile online.

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Akumu tantei (悪夢探偵, Nightmare Detective). Regia, sceneggiatura, fotografia, scenografia e montaggio: Tsukamoto Shin’ya. Musica: Ishikawa Chū. Interpreti e personaggi: Matsuda Ryūhei (Kyōichi Kagenuma, Nightmare Detective), Hitomi (Kirishima Keiko), Ando Masanobu (detective Wakamiya), Ōsugi Ren (detective Sekiya), Harada Yoshio (Oishi Keizo), Tsukamoto Shin’ya (Zero). Produttore: Ushiyama Takuji per Kaijyu Theater, Movie-Eye Entertainment Inc. Durata:106 min. Anno di produzione: 2006. Uscita nelle sale giapponesi: 16 gennaio 2007.
Link: Sito ufficiale del regista (in giapponese)

Keiko è una giovane e brava detective che chiede il trasferimento presso la squadra omicidi trovandosi a lavorare con il cinico e scettico Sekiya e con il collaborativo Wakamiya. Subito s’imbatte in un paio di suicidi sospetti che paiono entrambi riconducibili ad una telefonata presso un’utenza misteriosa che corrisponde al nome Zero. Keiko si rivolge a Kagenuma, il detective dell’incubo, che incontra proprio quando questi sta tentando un ennesimo suicidio. Nel corso delle indagini Wakamiya riesce ad entrare in contatto con Zero e, davanti agli occhi di Keiko,che non ha fatto in tempo ad avvertirlo, il collega, in preda ad un incubo, si toglie la vita. Le indagini procedono sino a che Keiko, dopo aver telefonato a Zero, convince il reticente detective dell’incubo ad aiutarla. Grazie ai suoi poteri paranormali, Kagenuma sfiderà Zero in una sorta di duello finale, portando alla luce i traumi infantili di quest’ultimo.
Il soggetto del film non esce dalle convenzioni del genere, rispettando schemi narrativi e tematiche ricorrenti le quali si fanno esplicite già nel titolo. Il cinema horror presuppone uno sviluppo dell’intreccio che procede attraverso una detection e in direzione di un mistero da risolvere in cui il passato traumatico, spesso, svolge un ruolo preponderante, affiorando come causa del male e dei suoi sintomi. I flashback, in quanto ritorno del rimosso, consentono la risoluzione esplicativa che chiude il racconto. L’incubo è la paura, il sangue, la morte, la labilità della mente umana, l’inconscio che prende il sopravvento sulla logica; e ancora il reale e l’immaginario che interagiscono costantemente in un racconto stratificato. Nightmare Detective elabora tali modalità e tematiche mescolandole a motivi già apparsi in The Call (Miike Takashi, 2003), quali i misteriosi suicidi-omicidi che si manifestano serialmente in seguito ad una chiamata telefonica; questa, a sua volta, pare generata da un istinto suicida che assume veste collettiva e sfrutta la rete telematica in quanto strumento di diffusione, come avviene in Suicide Club di Sono Sion (2001).
Il film sembra allontanarsi dalla precedente produzione sperimentale e più ermetica che ha fatto del regista uno dei principali autori contemporanei nipponici. Tuttavia anche qui il suo stile prende corpo, affiorando e imponendosi su una sceneggiatura più conforme al classico J-horror. La trasparenza dei personaggi e la linearità causale degli eventi guidano le indagini di Keiko e Kagenuma, fra i quali, sin dal primo incontro, quando il detective del soprannaturale legge la mente della protagonista, si stabilisce una sorta di relazione empatica. L’inchiesta esce però presto dalle consuete pratiche investigative imboccando la via del fantastico e trovando in una realtà parallela la risoluzione di un mistero volto a dipanarsi tramite procedure tipicamente psicanalitiche. Lo stesso Nightmare Detective si presenta in quanto interprete dei sogni e svolgerà funzione di analista quando farà riaffiorare i ricordi nella mente cyborg e contorta di Zero, come accade nella scena conclusiva che avvia il duello.
Una tale linearità narrativa fa perno su una struttura binaria tesa a mettere in luce un raddoppiamento e una biforcazione del racconto che poggia non solo sul binomio reale-immaginario, ma coinvolge la sua stessa articolazione sintattica, sia nella successione delle sequenze, sia in quella dei piani di ripresa. Non è un caso che l’indagine prenda due direzioni, quella tradizionale e quella soprannaturale, così come gli investigatori, in questo secondo campo, siano due: prima il collega della protagonista Wakamiya, poi Kagenuma. Sono due gli omicidi in successione che avviano l’indagine e confermano la riluttanza della donna alla vista del sangue. Analogamente i flashback si sovrappongono per formare una memoria che si sdoppia e crea racconti interni multipli, incubi collettivi, come fra l’agente e il detective, all’ospedale, ma soprattutto nella scena finale, dove il ritorno del rimosso la fa da padrone nel confronto diretto con l’assassino.
L’eloquenza dei dialoghi e il definito ritratto dei personaggi sono evidenti sin dalle prime battute che mettono in scena il protagonista, il suo carattere umile, timoroso e disperato, in contrapposizione ai suoi interlocutori. La sua presentazione avviene attraverso due scene consecutive: a casa del vecchio insegnante di suo padre e in ospedale di fronte ad un uomo morente attorniato dai suoi avidi familiari. Entrambe le scene pongono in ossessiva alternanza Kagenuma ai suoi interlocutori attraverso primi piani che rinserrano i personaggi e terminano rendendosi soffocanti e deformati: quando lui stesso è intimorito e la macchina da presa perde la propria stabilità, e quando, in una sua visione, i volti dei familiari presi da convulsioni si contorcono. Entrambe le scene partono da una sorta di equilibrio e contiguità per chiudere con una tensione crescente associata ad una irruente instabilità che si rende palese nell’alterco fra i personaggi e nel modo in cui essi sono mostrati. La stessa contiguità fra le inquadrature perde gradualmente il suo rigore contribuendo a comporre uno spazio sempre più frammentario e dinamico. Qui sono individuabili gli indici distintivi di una scrittura e di un approccio a cui il regista ha abituato il suo spettatore e che sono rintracciabili lungo l’intera pellicola. La scomposizione dello spazio, il suo decentramento all’interno del quadro, una visione deformante della realtà, restituita anche con accentuate angolazioni, la staticità dell’azione e il suo improvviso dinamismo. Ne sono un esempio le successive scene degli omicidi dove una tranquilla telefonata per strada o in uno scantinato, preannunciano un concitato inseguimento o una frenetica lotta in cui la macchina da presa simula lo sguardo di un soggetto senza identità e consistenza, riprendendo uno stilema tipico del genere e facendone una distintiva marca stilistica che fa perno sul costante disorientamento. Non ultimo elemento, la fotografia si distingue per le tinte tenui, livide, gli eccessi luminosi (alla centrale di polizia) e le dominanti oscurità minacciose, per il rapporto di continua alternanza fra profondità e superficie, come si nota a casa dell’insegnante, dove il suo volto lascia spazio ai capelli appesi che simboleggiano la presenza della figlia mai nata; oppure all’ospedale, dove il dettaglio sulla mano pone fuori fuoco il volto retrostante in un effetto flou ricorrente che sfumerà anche oltre il primo piano della ragazza al telefono pronta a suicidarsi.
Del resto tutti gli ambienti del film si mostrano in quanto luoghi di prigionia: gli scuri interni ma anche la città con i suoi palazzi geometrici e imponenti, volti a restituire la claustrofobia tipica delle architetture in cui sono immersi e reclusi i personaggi. Primo fra tutti quello spazio indistinto e anonimo in cui si trova Zero, fino a quel vano getta-rifiuti interno allo scantinato in cui è rinchiusa, nel finale, la protagonista Keiko: già luogo di prigionia del bimbo traumatizzato, ora carnefice della vicenda. Esplicite materializzazioni e figurazioni di quei mondi mentali, maniacali e labirintici che ossessionano l’opera di Tsukamoto. [Davide Morello]
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