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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

TETSUO: THE IRON MAN (Tetsuo, TSUKAMOTO Shin’ya, 1989)

Speciale Tsukamoto Shinya

La trilogia di Tetsuo

TOHORROR 22° edizione 17-22 ottobre Torino

di Matteo Boscarol

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Durante la 22° edizione del TOHorror di Torino (17-22 ottobre) verranno proiettati i primi due Tetsuo di Tsukamoto Shin’ya. Sonatine si era già occupato del regista in occasione della X edizione dell’Asian Film Festival di Reggio Emilia (16-24 marzo 2012) la cui retrospettiva era dedicata a Tsukamoto Shin’ya (il regista, presente al Festival, ricevette un premio alla carriera). In occasione di tale importante evento, Sonatine ha pubblicato le schede critiche di tutti i film di Tsukamoto, che fanno parte dello Speciale Tsukamoto.

Un feticista innesta vari oggetti e parti metalliche nel proprio corpo ma, quando qualcosa sembra andare storto, comincia a scappare per la città, sino a che un auto lo investe. Pensando di averlo ucciso, l’uomo alla guida, e la sua fidanzata, nascondono il presunto cadavere in un bosco. In un sovrapporsi di allucinazione e realtà l’uomo, radendosi, si rende conto che il suo corpo sta cominciando a mutare e a ibridarsi col metallo. Nelle strade della città, attira a sé ogni cosa sia fatta di quel materiale, sino a che il suo stesso membro, trasformatosi in una trivella, uccide la fidanzata. Nello scontro finale fra l’uomo e il feticista, i due si fonderanno in un’unica creatura, parte macchina e parte carne, un’arma capace di distruggere il mondo intero.

Tetsuo non è solo un film ambientato a Tokyo, ma anche un’opera che, a partire dalla sua dimensione allucinatoria,  con questa città letteralmente si fonde, offrendo di essa una visione da incubo, che ne recide ogni lievità e leggerezza. Rispetto a molte metropoli occidentali, come New York, Roma o Parigi, Tokyo, così come altre grandi città giapponesi, appare più pulita, ordinata e meno degradata di queste[1]. Tetsuo è solo in senso lato un film che condanna il tessuto urbano cittadino come un elemento disumanizzante in sé e per sé. Così come non si può pensare ad esso solo in rapporto alla centralità della figura del cyborg – dell’essere ibrido, del metallo che si fonde con la carne – che pur ha colpito l’immaginario del pubblico e contribuito alla sua fama. Tetsuo è tutto questo ma, specialmente rivisto oggi a più di vent’anni dalla sua realizzazione, si rivela essere qualcosa di molto più complesso, che impone considerazioni, sia di ordine tematico, sia di ordine stilistico, di più ampia portata.

Partiamo dalla sua genealogia, il film di Tsukamoto arriva alla fine degli anni Ottanta durante il picco di quel fenomeno economico che oramai tutti conoscono come baburu (bubble). È certamente sensato vedere questo dirompente lavoro come la rappresentazione e l’espressione della faccia oscura di quegli anni, ma è forse anche opportuno cominciare a adottare un punto di vista più ampio. Tetsuo è, in questo senso, figlio del decennio in cui è stato concepito, come testimoniano le influenze dell’estetica dei  videoclip e degli spot pubblicitari (per cui lo stesso regista ha lavorato), il debito verso il teatro sperimentale e la pratica dei film fatti in casa (i jishu eiga), e, non ultima, l’importanza della musica noiseo industrial, che sono parti fondamentali di un decennio complesso e stratificato. Fatte queste necessarie premesse, si possono allora individuare tre luoghi mentali che si sviluppano e si intrecciano nel delirio visivo di Tetsuo: la città, l’inorganico ed il rimosso.

Le immagini di Tetsuo sferzano lo spettatore come una frusta: chi ha avuto modo di vederlo in un cinema sa bene che si tratta prima di tutto di un’esperienza fisica, per usare una metafora neurologica si potrebbe dire che il film bypassa la corteccia cerebrale per colpire direttamente i centri nervosi più remoti, quelli vegetali. Ciò è ottenuto, certamente, grazie al montaggio frenetico, che caratterizza tutta l’opera del regista, ma anche tramite la musica, e più in generale, il suono[2], vera e propria colonna vertebrale del film, e una fotografia che allontana notevolmente Tetsuo dei primi lavori di Tsukamoto. È una fotografia in bianco e nero, che non punta però troppo alla stilizzazione, e mantiene una certa qualità sporca e sgranata, ideale mezzo per realizzare quella sperimentazione del linguaggio cinematografico che è qui portata fino agli estremi. La storia di Tetsuo può solo essere intuita o immaginata: il film si fonda su un’estetica in parte surrealista, dove il senso non è dato da una concatenazione logica di eventi ma da una sorta di accumulazione sensoriale che le immagini riescono a creare.

È qui che è possibile collegarsi a quella questione del rimosso prima citata, che passa attraverso l’importanza data ai detriti[3] e alle zone dimenticate della città, siano esse gli interni rugginosi dove si trova il feticista, o le strade anonime, e quindi obliate, che a velocità supersonica sono percorse dal protagonista nelle scene di stop motion. È parte oscura e nascosta anche la violenza e la sessualità che si manifesta improvvisamente e inconsciamente (in particolare nella scena in cui il membro dell’uomo si trasforma in una trivella che squarcia la sua fidanzata). Sono violenze e trasformazioni che scaturiscono dall’innesto dell’elemento ferroso all’interno del corpo del protagonista, quell’innesto che dà il via alla narrazione stessa, sempre che tale nozione possa essere usata per un film come Tetsuo. La città e il suo metallo divorano con le loro membra tecnologiche il corpo e l’umanità stessa, rappresentandone nel contempo il limite e la fine. Il ferro, il tetsu[4], è qui simbolo dell’inorganico e della potenza di mutazione che contiene in sé un feticismo che è allo stesso tempo attrazione e repulsione verso l’inanimato, elemento quest’ultimo che funge anche da confine tra vita e morte, perché dove comincia l’inorganico finisce anche la vita[5].
Tetsuo è anche una sontuosa cartografia di una città mostro, immaginata e filtrata dalla sensibilità delirante di Tsukamoto, anzi sarebbe più giusto dire che è l’estetica del regista ad essere la figlia spuria ed ibrida di quest’orrido urbano. Ebbene è proprio una tale metropoli in delirio che sembra filmarsi da sé, e dettare il ritmo del film, insieme alla visione e alle visioni che in esso si fanno largo. Come accade a volte nei primi lavori di un artista, quando la gabbia autoriale non ha ancora cominciato a funzionare, Tsukamoto riesce qui, più che nei suoi successivi lavori, a sottrarsi alla sua opera, a farsi canale di qualcosa che lui stesso come regista, montatore, direttore della fotografia, cioè come artigiano della settima arte, porta in sé inconsciamente. È l’incubo che la metropoli sogna ogni notte, la sua parte più oscura, che si manifesta nel delirio e nella sperimentazione di Tetsuo, attraverso i suoi rumori atroci, il piegarsi e distorcersi dell’elemento ferroso, le strade e i percorsi urbani che, grazie all’escamotage dello stop motion, appaiono come vasi sanguigni di questa stessa metropoli.
In una delle scene più belle del film, una donna, seduta sulla panchina di una stazione, guarda verso di noi, mentre la sua figura è come filtrata da un monitor. Tsukamoto sembra qui sussumere tutte le visioni e le immagini che popolano le grandi città: dai milioni di televisori accesi nelle abitazioni fino agli enormi schermi che illuminano le strade agli incroci più importanti. Ancora una volta, lo sguardo del film è quello della città stessa, con tutti gli apparati tecnologici che la caratterizzano e la definiscono. E poi ecco i suoi rumori: il passaggio del treno che ogni volta sembra una bomba che esplode nelle orecchie e nella psiche. E ancora, l’ossessione per i fili e i tralicci, così presenti nel tessuto urbano nipponico,  ma che solo chi sa alzare la testa può vedere. Tsukamoto è uno di questi: si eleva dalla quotidianità soporifera che annienta, solleva simbolicamente il capo verso il cielo screziato da fili e  pali elettrici, riesce a cogliere qualcosa che la metropoli sembra volerci dire, un qualcosa che ancora oggi continua a perturbare e a rappresentare uno scarto rispetto a ciò che è comunemente percepito. In questo scarto d’autore, in questa sua capacità di immaginare e cogliere l’inesprimibile, Tsukamoto dimostra di essere un artista che sa sì legarsi al suo tempo ma anche oltrepassarlo.

Titolo originale: 鉄男 (Tetsuo); regia, soggetto, sceneggiatura, scenografia e montaggio: Tsukamoto Shin’ya. Fotografia: Fujiwara Kei, Tsukamoto Shin`ya. Musica: Ishikawa Chū. Interpreti e personaggi: Tsukamoto Shin’ya (il feticista), Taguchi Tomorowo (l’uomo), Fujiwara Kei (la donna), Kanaoka Nobu (la donna con gli occhiali). Produzione: Tsukamoto Shin’ya per Kaijyu Theater. Durata: 67′ (Final cut: 77′ ). Prima proiezione in Giappone: 1 luglio 1989.
Link: Tom Mes (Midnight Eye) – Wikipedia
 

[1] È proprio l’eccessiva pulizia, l’ordine e paradossalmente la vivibilità delle città giapponesi che Tsukamoto indaga in alcune sue opere successive, quando spesso la violenza senza senso e improvvisa nasce proprio in questi contesti. 
[2] Anche il sonoro è una parte maledetta e rifiutata. Tetsuo è pieno di rumori battenti, percussioni, cigolii ed esplosioni che sono espulsi di solito dal canone della musica e da quello dei suoni.
[3] A questo riguardo ricordiamo che uno degli artistic che più ha lavorato su questi scarti della società sia stato il Tedesco Kurt Schwitters, dalla cui opera «Merzabau» ha preso il nome uno dei più estremi artisti noise nipponici, Akita Masami, in arte, appunto, Merzbow.
[4] Tetsuo è una parola composta dai due caratteri giapponesi di tetsu e o,  che significano rispettivamente “ferro” e “uomo”.
[5] Questi temi saranno indagati da Tsukamoto in altre opere, pensiamo soprattutto a Vital.
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