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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

Family

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Family (id.). Regia: Miike Takashi. Soggetto:da un manga di Maki Hisao. Sceneggiatura:Maki Hisao. Fotografia: MiikeTakashi, Yasuda Hikaru. Luci:Miyawaki Masaki. Scenografia:Takeyasu Masato. Montaggio: ShimamuraYasushi. Musica: Monkey Pirates. Suono: Satō Yukiya. Interpreti e personaggi: Iwaki Kōichi (Hideshi), Kimura Kazuya(Tadashi), Kase Taishū (Takeshi), Endō Ken’ichi (Kemochi), Hongo Kojirō,Natsuki Yōko, Yasuoka Rikiya. Produzione:Maki Hisao, Oigawa Tsuguo per WA-RU, Family Production Committee. Durata: 108’. Uscita nelle sale giapponesi: 10 marzo 2001.
Link: Tom Mes (Midnight Eye) – Sadam Arseneau (DVD Verdict)
Punteggio ★★1/2
Girato in video digitale, comegià era accaduto per il precedente VisitorQ, Family è tratto da un manga di Maki Hisao, che insieme alla sua attività di fumettista era noto anche per quelle di produttore, attore e, soprattutto, maestro di karate (panni questiche veste anche nel film, in un ruolo che sembra essergli stato appositamente ritagliato). La storia si incentra su tre fratelli, Hideshi, Takashi e TakeshiMiwa, che si trovano a dover fronteggiare due diverse bande yakuza. Takeshi, il più giovane dei Miwa, è un killer professionista, cui Nishiwaki, il boss di Hideshi, assegna il compito di uccidere Iwaida, appartenente al clan rivale dei Mutsumi, e padre dello stesso Takeshi, di cui violentò la madre. L’assassinio di Iwaida provoca non solo una guerra fra bande, ma anche un conflitto all’interno degli stessi uomini di Nishiwaki, in una spietata lotta per il potere. I due fratelli più anziani, Hideshi e Takashi, cercano di difendere la vita di quello più giovane, Takeshi, il quale, a sua volta, innamoratosi di Rie, prostituta per costrizione ma fervente cristiana, è sempre più deciso adabbandonare la via del crimine.
Come si evince dalla ricostruzione del soggetto, Family si struttura su diversi topoi narrativi e stereotipi appartenenti al cinema yakuza, a partire da quelli dello scontro fra bande (il clan Nishiwaki contro quello Mutsumi, con l’inevitabile serie di attentati e conflitti a fuoco) e all’interno della stessa banda (l’affascinante Hisako che cerca di allearsi con Hideshi, per scalzare Omaeda e prenderne il posto nella scala gerarchica deiNishiwaki). Come è proprio di molto cinema yakuza contemporaneo, questi conflitti non passano attraverso la lotta fra il bene e il male, ma semplicemente fra chi è più spietato e chi, invece, lo è un po’ meno (la redenzione di Takeshi è un motivo secondario del film e sembra essere più dichiarata che davvero agita).
La riunione dei boss dei Nishiwaki (cui oltre allo stesso Nishiwaki, partecipano Hideshi, Hisako e Omaeda) avviene in un magazzino vuoto, al centro del quale le fiamme di un falò, su cui le immagini insistono con dovizia, evoca un’atmosfera dai toni infernali. I diversi interventi dei partecipanti all’incontro offrono un quadro esauriente delle molteplici attività della yakuza che vanno ormai ben di là da quel semplice strozzinaggio su cui il film si apriva, nel suo prologo ambientato negli anni Sessanta. Oggi – ci dice la sequenza – la yakuza controlla ingenti capitali attraverso la gestione diretta di supermercati, ristoranti e centri informatici, si impegna nella ristrutturazione di banche, controlla le TV e i giornali, corrompe e si allea con politici di alto livello, è in grado di infiltrarsi nella polizia. Entrambi i detective del film, prima Kakuta e poi Shiraki, sono pagati dalla yakuza, e non solo per chiudere un occhio sulle sue attività, ma anche per svolgere a favore di questa delle vere e proprie indagini.
La messinscena dellavtrasformazione della yakuza e dei suoi clan in vere e proprie società per azioni in grado di gestire capitali pari a centinaia di miliardi di yen, non implica però che Family dimentichi aspetti più tradizionali di questo mondo e della sua rappresentazione nell’immaginario collettivo, che il cinema e la letteratura di genere giapponesi – e oggi anche i manga e i videogame – hanno ampiamente contribuitoa costruire. Ed ecco allora sfilare altri stereotipi, come il legame con lo “spirito più autentico” del Giappone che passa attraverso gli austeri kimono di Nishiwaki e quelli più seducenti di Hisako, la villa in perfetto stile tradizionale dello stesso Nishiwaki, l’armatura di samurai che si vede più volte alle spalle del boss Kemochi, e il karate, grazie a cui Hideshi è riuscito a trovare la forza di “purificarsi” e ricostruire la propria vita. Non manca neanche l’inevitabile celebrazione dell’arte del tatuaggio, come accade per quello sulla schiena di Hideshi, nel flash back quasi “astratto” che ricostruisce l’amicizia fra questi e il maestro di karate, Maki. I clan yakuza appaiono ancora strutturati in modo decisamente gerarchico, con ruoli stabiliti e che non possono essere messi in discussione (se non nella logica della cospirazione e del tradimento, come del resto puntualmente avviene), e chi è al comando haun diritto assoluto di dominio e soprafazione nei confronti di chi gli è sottoposto, che spesso esercita attraverso la violenza fisica (come Kemochi fa con i suoi uomini). C’è poi il culto della forma e dell’apparenza dietro cui è possibile mascherare ogni tipo di orrore: quando nel flash back del reclutamento di Hideshi nel mondo della yakuza il boss gli si rivolge, è per dirgli a mo’ di monito che «le maniere sono le cose più importanti della vita».
A questi stereotipi negativi, si accompagnano anche quelli “positivi”, legati alla tradizione del ninkyō eiga, la grande stagione delcinema yakuza degli anni Sessanta, come testimoniano il motivo della fratellanza e dell’amicizia virile (ancora il flashback sul legame fra Hideshie Maki) e il culto dell’onore per il quale si è disposti a mettere in gioco la propria vita (un amico di Takeshi riporta la decisione di questi di prendere le armi e recarsi nel covo dei nemici per morirvi «con onore»). Ancora legata all’immaginario del ninkyō eiga, ma anche di molto cinema samuraico, è la scena in cui Hideshi e Takashi partono per lo scontro finale e salutano con fermezza tutti i loro cari e familiari, che trattengono a loro volta le proprie emozioni, limitandosi a chinare il capo, in forma di saluto.
Più legata all’universo particolare di Miike è, invece, l’associazione fra yakuza e perversione sessuale che passa attraverso i personaggi di Kemochi e Hisako. Per il primo si veda la scena dello stupro di Misako, la moglie di Takashi, in cui l’uomo obbliga la donna a leccargli i piedi; e, per la seconda, la sequenza della tortura di Omaeda, dove questi è costretto a indossare un costume in lattice mentre una mistress lo frusta, secondo un rituale sadomaso orchestrato dalla stessa Hisako, che vi assiste indifferente, fumando una sigaretta. Più in generale, come del resto la scenadi Kemochi già testimonia, il machismo del mondo yakuza passa attraverso minacciose battute di dialogo che la dicono lunga su un certo modo di pensare il corpo della donna («Immagino la sua faccia quando te la scoperai», «Glielo sbatterò dentro e me la scoperò sino a farla svenire»).
La famiglia cui il film si riferiscesin dal titolo è sia la “famiglia” intesa come clan (i membri di una banda yakuza si chiamano l’un l’altro fratello, almeno fra pari), sia la famiglia vera e propria, qui rappresentata dai Miwa. E se la prima delle due “famiglie” non è nient’altro che un nido di vipere – che tramano l’una contro l’altra, si ricattano e uccidono vicendevolmente – la seconda, invece, si fonda su autentici legami d’amore e fedeltà. Hideshi, ancora ragazzo, si scontra a viso aperto con l’assassino di suo padre e quando questi gli fa notare che non sitrattava che di un ubriacone, gli risponde, prima di vendicarlo: «Mio padre è sempre mio padre». Divenuti adulti, i tre fratelli non mancano mai di visitare la madre malata nella sua casa di cura, Hideshi e Takashi rischiano la vita per proteggere il fratello, ancora Hideshi ha sempre come primo pensiero quello di fare in modo che la moglie e le figlie ricevano la necessaria protezione da un eventuale attacco nemico, e la sua fedeltà alla propria sposa è attestata dalla stoica resistenza alle avances della seducente Hisako.
I limiti maggiori di Family stanno certamente nella suasceneggiatura, firmata dallo stesso Maki Hisao: alcuni elementi introdotti nel corsodella narrazione sembrano rimanere irrisolti, o perlomeno non sufficientemente chiariti; il ricorso alla voce narrante appare un espediente troppo di comodoper spiegare fatti importanti per lo sviluppo e la comprensione dell’intreccio (in particolare quelli relativi al passato di Nishiwaki che, nell’immediato dopoguerra, aveva costruito la sua fortuna dando informazioni sul mondo criminale agli occupanti americani); alcune scene di sparatoria sembrano poco motivate o comunque messe a forza qui e là per movimentare il racconto (secondo un criterio non molto dissimile a quello che il cinema pinku usa per le sue scene erotiche); il finale aperto (in cui i due fratelli sopravvivono incredibilmente allo scontro con i soldati filippini, e Hisako, non contenta di aver scalzato Omaeda e di essere diventata la numero 2, esplicita la sua sete di altro potere) appare pensato in modo troppo evidente come preannuncio di un successivo episodio (che non è poi stato realizzato).
Più interessante, invece, la dimensione visiva del film – in cui Miike sfrutta le possibilità del digitale –a partire dai frequenti flash back in qualche modo stilizzati in immagini dal sapore amatoriale, graffi di pellicola, colori slavati, come se il ricordo si realizzasse attraverso un filmino in Super8. Assai particolare, poi, è il flashback, già citato, della nascita dell’amicizia fra Hideshi e Maki, che si dà informa quasi astratta, usa in modo volutamente artificiale il chroma-key (quello che un tempo era il trasparente), affida il racconto alla sola voce over optando per immagini non narrative che cristallizzano certi momenti particolari, e gioca su passaggi dal bianco e nero al colore (ad esempio per il tatuaggio di Hideshi). Altre soluzioni visive e di linguaggio sono tipiche del cinema di Miike, come l’uso insistito di filtri e il montaggio spezzato (si veda la sequenza continuamente interrotta da altri eventi della riunione iniziale dei boss del clanNishiwaki). Eclettico, come sempre, il cineasta si affida sia al montaggio veloce sia a long take e piani sequenza (assai intenso quello sul pentimento di Chiharu, la matrigna di Rei, che prima vende alla yakuza la figliastra, ma poi decide di accorrere in suo soccorso). Pur fautore di un cinema dove tutto può essere mostrato, compreso ciò che preferiremmo non vedere, Miike si dimostra abile anche nell’uso del fuori campo (vedi la scena dell’assassinio di Miwa Haruko) e di soluzioni visive dal tono intimo e discreto (come accade, adesempio, per la dissolvenza incrociata che fa letteralmente sparire dall’immagine la stessa Haruko, alludendo così alla sua imminente morte; un effetto questo che un maestro del cinema giapponese come Shimizu Hiroshi aveva già sperimentato nel corso degli anni Trenta). La colonna sonora del film è affidata alla musica Hard Rock del gruppo Monkey Pirates, che, in una scena di particolare intensità, Miike interrompe bruscamente quando Takashi si ritrova davanti la moglie nel momento in cui uno yakuza rivale la sta stuprando. Infine, non mancano le solite attrazioni così care al regista e al suo cinema flamboyant: a partire dall’attacco al covo del clan di Kemochi che Hideshi e Takashi compiono con l’ausilio, niente po’ po’ di meno che, di un carro armato, per arrivare all’immagine conclusiva del film in cui Hideshi, come il bandito del celebre The Great Train Robbery (Edwin Porter, 1903), esplode alcuni colpidi pistola contro la macchina da presa… e lo spettatore. [Dario Tomasi]
L’edizione in DVD del film,disponibile anche in Italia nella serie Maki Collection, è divisa in due parti Family e Family 2.
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