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SONATINE CLASSICS

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Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

Okuribito (おくりびと, Departures )

I migliori film del cinema giapponese dal 2000 a oggi scelti dalla redazione di Sonatine
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Okuribito (おくりびと, Departures ). Regia: Takita Yōjiro. Sceneggiatura: Koyama Kundō. Fotografia (colore): Hamada Takeshi. Luci: Takaya Hitoshi. Scenografia: Ogawa Fumio. Montaggio: Kawashima Akimasa. Musica: Hisaishi Joe. Interpreti e personaggi: Motoki Masahiro (Kobayashi Daigo), Yamakazi Tsutomu (Sasaki Ikuei), Hirosue Ryōko (Kobayashi Mika), Yo Kimiko (Uemura Yuriko), Yoshiyuki Kazuko (Yamashita Tsuyako), Sugimoto Tetta (Yamashita), Sasano Takashi (Hirata Shokichi), Minegishi Tōru (Kobayashi Yoshiki), Yamada Tatsuo (Togashi), Ishida Tarō (Sonezaki), Miyata Sanae (Togashi Naomi), Ōtani Ryōsuke (padre di Tomeo), Hoshino Mitsuyo (Kobayashi Kazuko). Produzione: Nakazawa Toshiaki, Watai Toshihisa, Mae Yasuhiro per Amuse Soft Entertainment, Shōchiku Company, Shogakukan. Distribuzione italiana: Tucker Film. Durata: 131′. Uscita nelle sale giapponesi: 13 settembre 2008.
Montréal Film Festival 2008: Grand Prix des Amériques. Academy Awards Usa 2009: Migliore Film straniero. Japanese Academy Prize 2009: Migliore film, Migliore regista, Migliore attore, Migliore attrice, Migliore sceneggiatura, Migliore Fotografia, Migliore scenografia. Hong Kong Film Festival 2008: Migliore film asiatico. Kinema Junpō Award 2009: Migliore film, Migliore regista, Migliore sceneggiatura, Migliore attore. Mainichi Film Concours 2009: Miglior Film. Udine Far East Film Festival 2009: Premio del pubblico come Migliore film. Yokohama Film Festival 2009: Miglior film, Migliore regia.
Presentato in anteprima mondiale al Montréal Film Festival (23 agosto 2008). Altri festival: Deauville, Hawaii, Istanbul, Los Angeles, Palm Spring, Pusan, Rio de Janeiro, Seattle, Tribeca, Udine, Vienna, Washington, Yokohama e altri.
Kobayashi Daigo è un musicista destinato a terminare la propria carriera già agli esordi, a causa del fallimento della sua orchestra Con l’approvazione della moglie, la coppia si trasferisce in provincia dove la madre di lui gli ha lasciato una casa in eredità. Alla ricerca di un lavoro, legge un’inserzione che pare convincente: una probabile agenzia di viaggi richiede una persona anche senza esperienza per una mansione ben pagata. L’equivoco si chiarisce al colloquio dove Daigo scopre che il viaggio di cui si parla è la dipartita verso l’aldilà. La ditta presso cui l’uomo si appresta a lavorare, pur non avendo mai nemmeno visto un cadavere in vita sua, è specializzata nella vestizione di defunti. Il suo capo, Sasaki, lo prende in simpatia, mentre lui non rivela alla moglie in cosa consista effettivamente il suo lavoro. Le chiamate si susseguono e Daigo, da apprendista, diviene sempre più esperto del mestiere, grazie all’aiuto dello stesso Sasaki. Quando la moglie scopre la verità sul suo lavoro, lo abbandona, convinta, sulla base di un pregiudizio assai diffuso in Giappone, che la sua sia una professione ripugnante. Daigo continua per la sua strada, nonostante sia roso da seri dubbi e dalla sensazione di essere un fallito, cosi come la moglie gli aveva detto di essere. Una sera, lei ritorna all’improvviso e gli dice di essere incinta. Sopraggiunge una telefonata relativa alla morte di un loro conoscente. La moglie accompagna il marito alla cerimonia di vestizione, e lì si rende conto che il lavoro dell’uomo è tutt’altro che umiliante e spregevole. Un giorno a morire è il padre di Daigo, che aveva abbandonato lui e la madre per fuggire con un’amante. Daigo non ha di lui che vaghi ricordi e non vorrebbe più averci a che fare in alcun modo. Sasaki e la moglie lo convincono però a presenziare alla cerimonia d’addio. L’uomo e la donna si avviano così insieme verso un futuro di speranza, simboleggiato dal grembo materno della futura madre.
Departures è un film denso, capace di commuovere e riflettere con lucidità su quell’evento unico e “irrappresentabile” che è la morte. Non quella spettacolare o violenta, neanche quella eroica: la morte semplice, che tutti coinvolge, al di là del proprio credo, come afferma lo stesso Sasaki, il proprietario dell’agenzia funebre.
Il film coniuga introspezione e distacco umoristico, tradizione e modernità, accenti melodrammatici e poetici, con toni da commedia romantica, attraverso un intreccio che mantiene in costante equilibrio il coinvolgimento emotivo dello spettatore e lo sguardo filosofico, morale e religioso che sottende la trama. Infatti, la morte, con tutte le riflessioni cui dà adito, assume una molteplicità di sfumature intorno alle quali si articolano tante potenziali ramificazioni narrative quante sono le cerimonie celebrate: è sempre presente, si respira e si tocca ad ogni istante, a partire dal rituale della vestizione, nei dettagli biografici del protagonista, nei dialoghi, negli atteggiamenti e negli accadimenti della comunità. Essa però è sempre fuoricampo: ne sono mostrate le conseguenze, le sofferte reazioni e le valenze affettive che si dilatano in profondi silenzi, gesti di devozione e rispetto, screzi e tensioni che regolano le dinamiche relazionali.
Il punto di vista, sia figurativo sia morale, del film respinge la morte come evento soggettivo e la rende invece universale, ponendo tutte le sue vittime sul medesimo piano. Il corpo in stato di decomposizione dell’anziana, quello della bella donna che si scopre essere un transessuale, quello del proprio padre ormai perduto dall’infanzia, rappresentano l’esito di un evento messo in ellissi e la cui causa non interessa. Il percorso iniziatico di Daigo si avvia attraverso il suo sguardo, con cui si identifica la macchina da presa, nella scena della prima vestizione celebrata dal signor Sasaki. Sarà quest’ultimo a sancire la maturazione del protagonista, in un’inversione di ruoli e sguardi,  ammirandolo mentre veste il corpo di un transessuale, in una scena, in qualche modo anticipata già nell’esordio del film,  in cui l’ironia contrasta con la solennità dell’istante. 
Nel suo lirismo drammatico, il film, confrontandosi direttamente con la morte, è anche una riflessione sul tempo. Lo sguardo di Daigo è, infatti, volto anche verso il passato. Un passato che si identifica, in particolare, con la figura del padre, rinnegato e osteggiato, a più riprese accusato dallo stesso figlio e dalla sua voce narrante che del genitore ha solo il ricordo sfocato del volto. Ed è proprio la fotografia di Hamada Takeshi (già collaboratore di Sai Yōichi per Doing Times, 2002, e Blood and Bones, 2004) a bene interpretare, con colori caldi e sfumati, la semplicità dei caratteri, come dell’ambiente, conferendo loro una dimensione tradizionale e un tono familiare, genuino e crepuscolare. Vecchie fotografie perdono nitidezza nella profondità del quadro, come  ricordi di chi ha perso il suo caro ed è costretto a vivere nel dolore: il ritratto della moglie dietro le spalle del signor Sasaki, o quello mentale del padre di Daigo.
Gli oggetti, gli ambienti, la natura, sempre relazionati alla centralità della figura umana, divengono elementi espressivi che tracciano lineari percorsi narrativi dalla chiara valenza simbolica: i salmoni che risalgono la corrente, per poi tornare al loro luogo natio prima di morire; la pietra eretta a strumento di comunicazione fra padre e figlio, ritrovata insieme al vecchio violoncello, prima, e fra le mani del genitore defunto, poi, come segno di un profondo legame mai davvero interrotto; l’albero di pesco in fiore con i petali rosa che invadono lo schermo, come anticipazione del lieto fine in cui al centro vi è la figura della moglie gravida che attesta il continuo ciclo della vita, dopo la morte e la conseguente vestizione del padre.
La coralità dei molteplici percorsi interpretativi e la generale alternanza di toni umoristici e gravi, sono supportati dalla funzione narrativa e metaforica della musica, curata dal compositore Hisaishi Joe, già collaboratore di Kitano e Miyazaki. Un’altra linea narrativa di fondamentale importanza, volta a connotare ulteriormente lo stratificato personaggio di Daigo, è la sua carriera di violoncellista, stroncata sin dalle prime battute. La musica funge da ulteriore canale comunicativo con il passato, e quindi con lo stesso padre che l’ha iniziato al violoncello, ma ancor più diviene elemento espressivo che interpreta sentimenti ed emozioni. Il tono divertito e canzonatorio dello sketch in cui Kobayashi si presta come modello per il video promozionale della ditta, interpretando un defunto in mutande e suscitando l’ilarità della troupe, è contrastato dalle note solenni dell’Ave Maria di Bach, vero leitmotiv della pellicola. Il brano, particolarmente amato dal padre, continua a proporsi nei frangenti più introspettivi e lirici del film, dove il passato malinconico o lo slancio fantastico e soave prendono il sopravvento tramutandosi in immagini-ricordo o figurazioni pseudo-oniriche: come accade per l’alternanza fra Kobayashi che suona da bambino e da adulto, quando trova il vecchio violoncello, oppure grazie agli ampi movimenti di macchina che  ritraggono lui suonare sospeso su una collina dagli ampi orizzonti, mentre di fatto è con i suoi due colleghi di lavoro a festeggiare nel malinconico ufficio. [Davide Morello]
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