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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

Zatōichi (座頭市, Zatoichi)

I migliori film del cinema giapponese dal 2000 a oggi scelti dalla redazione di Sonatine

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Zatōichi (座頭市, Zatoichi). Regia:  Kitano Takeshi. Sceneggiatura: Kitano Takeshi (dal romanzo di Shimosawa Kan). Luci: Takaya Hitoshi. Fotografia (colore): Yanagijima Katsumi. Suono: Horiuchi Senji. Costumi: Yamamoto Yohji. Montaggio: Kitano Takeshi, Ōta Yoshinori. Musiche: Suzuki Keiichi. Effetti speciali: Fujiwara Kakusei. Interpreti e personaggi:Kitano Takeshi (Zatōichi), Asano Tadanobu (Genosuke Hattori), Ōkusu Michiyo (Zia Ōme), Taka Gadarukanaru (Shinkichi), Tachibana Daigorō (geisha Seitaro), Daike Yūko (geisha Okinu), Natsukawa Yui (O-Shino, moglie di Hattori), Kishibe Ittoku (Ginzo Inosuke), Ishikura Saburō (Ogi Tashichi), Emoto Akira (oste).  Produzione: Mori Masayuki per Office Kitano, Saitō Tsunehisa per Saitō Entertainment. Distribuzione: Shochiku/Celluloid Dreams. Durata: 116′; Uscita nelle sale giapponesi: 2 settembre 2003.

Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica 2003: Leone d’argento, Premio speciale per la Regia. Marrakech International Film Festival 2003: Miglior Regia. Sitges. Catalonian International Film Festival 2003: Miglior Film, Miglior Colonna Sonora, Premio del Pubblico. Toronto International Film Festival 2003: Premio del Pubblico. Japanese Academy Award 2004: Miglior Fotografia (Yanagijima Katsumi), Miglior Montaggio (Kitano Takeshi, Ōta Yoshinori), Miglior Luce (Takaya Hitoshi), Miglior Colonna Sonora (Suzuki Keiichi), Miglior Suono (Horiuchi Senji).  Cinemanila International Film Festival 2004: Premio del pubblico a Kitano Takeshi. Kinema Junpo Awards 2004: Migliore Attrice non protagonista (Ohkusu Michiyo), Premio del pubblico per il Miglior Film. Mainichi Film Councours 2004: Migliore Attrice non protagonista (Ōkusu Michiyo), Migliore Attore non protagonista (Emoto Akira)
Giappone, XIX secolo. Zatōichi è un vagabondo cieco che si guadagna da vivere con il gioco d’azzardo e facendo massaggi. Nel suo incedere lento, però, nasconde un grande segreto: Zatōichi, infatti, è un maestro della spada, veloce, preciso e implacabile. Quando arriva in un remoto villaggio di montagna, scopre che i suoi abitanti sono letteralmente in balia della banda dello spietato Ginzo, in lotta con alcune famiglie potenti per ottenere il completo controllo della regione. Aiutando Oume, vecchia contadina che lo accoglie nella sua povera casa, si rende conto che la donna è preoccupata per l’inclinazione al gioco del nipote. Lo incontra poco dopo nella bisca e lo consiglia nel gioco dei dadi. La stessa sera il massaggiatore incontra nella locanda il giovane samurai Hattori, costretto a fare la guardia del corpo di Ginzo per guadagnare i soldi necessari alle cure della moglie malata. Nel villaggio si aggirano anche due gheishe, Seitaro e Okinu, donne misteriose, che nascondono un segreto e un passato che emerge via via, attraverso una serie di flashback. In realtà sono fratello e sorella, scampati dieci anni prima, al massacro dell’intera famiglia per mano di un gruppo di malviventi sconosciuti. Da allora hanno un unico obiettivo: uccidere gli uomini che si sono macchiati di un tanto efferato delitto, che cercano testardamente da tutto questo tempo pur conoscendo solo i nomi di alcuni. Seitaro e Okuni raccontano questa storia al massaggiatore e a Shinkichi, dopo una fortunata partita di dadi.
Qualche tempo gli eventi precipitano: nella bisca Zatōichi sfodera la sua spada e uccide tutti, colpevoli di aver barato al gioco, mentre le due Geishe, chiamate ad allietare la serata del governatore, si ribellano sfoderando le loro spade nascoste. Ricercati dagli uomini di Ginzo i quattro devono nascondersi. Trovano un sicuro rifugio a casa di Oume in una terribile notte di pioggia che riporta alla memoria di ognuno vicende passate. Zatōichi richiama alla mente un combattimento e le giovane Okuni ripensa a episodi dolorosi della sua vita di vagabonda con il fratello.
Nel frattempo Ginzo, che è riuscito a conquistare il potere assoluto, spinge la sua guardia del corpo ad uccidere Zatôichi. Il duello che  segue è rapido e fatale per il giovane samurai, che muore nel momento stesso in cui la moglie si toglie la vita. Anche Okuni e Seitaro sono tornate al villaggio per scoprire la vera identità di Ginzo e degli uomini che lavorano per lui. Le raggiunge il massaggiatore che, alla fine di un estenuante combattimento di spade, riesce a sterminare l’intera banda. Ora il villaggio può ritrovare la sua pace e gli abitanti sono finalmente liberi dalle pressanti richieste di denaro dei malviventi. Sono riuniti tutti allegramente per ricostruire la casa di Oume, bruciata dagli uomini di Ginzo, o per preparare la grande festa indetta per il giorno dopo. Zatōichi però, ha ripreso la sua strada.
Kitano Takeshi dirige e interpreta il ruolo del protagonista in questa nuova versione cinematografica delle avventure del cieco massaggiatore Zatōichi, personaggio molto popolare creato dallo scrittore Shimozawa Kan e divenuto l’eroe di ventisei film prodotti tra l’inizio degli anni Sessanta e la fine degli anni Ottanta e di una serie televisiva realizzata tra il ‘72 e il ‘74 (protagonista sempre l’attore Katsu Shintarō), che ha letteralmente conquistato il pubblico giapponese. Da qui l’idea del regista di Sonatine che, ha più volte dichiarato di aver cercato di creare una nuova versione, molto diversa dall’originale, sia dal punto di vista psicologico quanto da quello fisico. Mentre lo Zatōichi originale aveva i capelli neri, portava un kimono chiaro e un bastone marrone, Kitano ne fa un tipo eccentrico, dai capelli biondi con una spada nascosta dentro un fodero di bambù dipinto di rosso, tutt’altro che aperto e socievole, anzi, silenzioso e introverso.
Diversa anche l’estetica, il ritmo, l’idea stessa di una messa in scena che predilige la commistione di segni ed elabora gli eccessi grafici come elementi in più a dare rilievo al tessuto narrativo. Il racconto, infatti, tutt’altro che lineare, si moltiplica in azioni secondarie, di commedia, con scene di ballo e di musica, come quando all’inizio i contadini, che lavorano la terra entrano a far parte integrante della colonna sonora facendo risuonare a tempo i loro poveri strumenti, e il suono si fonde armonicamente con le immagini, pur provenendo sia dal fuori campo che dall’interno della scena. Così anche per i momenti di battaglia. In questo caso è il colore a stupire nella sua improvvisa accensione tutt’altro che realistica. “La mia intenzione era quella di esagerare gli spargimenti di sangue – ha più volte dichiarato Kitano – per dare al tutto un tocco da cartoon, da videogame. Volevo rendere le scene dei combattimento il più possibile surreali, divertenti, mi piaceva l’idea di descrivere colpi e ferite in una dimensione grafica”.  
Alla fine, uccidendo l’ultimo dei cattivi, Zatōichi, che è cieco, apre gli occhi stupendo il suo rivale: “Perché fai finta di essere cieco?”, gli chiede, “Perché i ciechi sentono meglio”. Scambio di battute che può sembrare un controsenso in un film dove l’immagine è preponderante. Ma è un paradosso solo apparente, perché in realtà è nello scarto tra il vedere e il non vedere che si definisce e si svela l’opera. Una sorta di invito ad andare oltre lo sguardo per approfondire la conoscenza attraverso gli altri sensi, il tatto, l’istinto e l’udito, come una lezione di cinema e di vita che si incrocia e si fonde nel modo amplio e composito dello sguardo. Il mondo di Kitano va sempre oltre l’inquadratura visibile, si estende in tutte le direzioni, prosegue fuori dal film, in un fuori che è, però, automaticamente anche dentro, corpo dirompente, incapace di freni, in cui si disconoscono le regole della continuità.
Nel ritmo “musical”, prodotto dai gesti dei protagonisti è custodito tutto il lavoro di adesione e allontanamento dai codici classici del film di samurai, l’omaggio alla tradizione del ronin cieco, e la sua disobbedienza. Zatōichi disorienta e seduce per lo straniamento dell’ambientazione temporale, siamo nel XIX secolo, ma i personaggi sembrano non essersene accorti: ci appaiono congelati nel rito di una narrazione epica, fatta di eroi pronti a morire, di spade che si incrociano e di sangue fatto scorrere nei combattimenti più estremi. Si perde di vista anche la durata di ogni combattimento e di ogni dialogo, l’attesa, lentamente, si impadronisce del tempo, scivola sotto traccia scardinando quasi impercettibilmente le regole e gli schemi di un genere tanto codificato. Sta in questa attesa il sentimento di cui Kitano ci parla con la cecità del suo personaggio, punto di collegamento tra la finzione e la riflessione sul fare cinema, il nodo attorno al quale si irradiano le coreografie, dai ripetuti duelli, alla parata finale, una festa di ritmi che chiama a raccolta tutti gli attori (tranne Kitano) liberi ora di guardare in macchina ribadendo la deriva ludica, il piacere dell’evasione che caratterizza da sempre l’opera del regista, sapiente miscelatore di ironia e ferocia. [Grazia Paganelli]
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