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SONATINE CLASSICS

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Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

Sharasōju (沙羅双樹, Shara)

I migliori film del cinema giapponese dal 2000 a oggi scelti dalla redazione di Sonatine

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Sharasōju (沙羅双樹, Shara). Regia e sceneggiatura: Kawase Naomi. Fotografia (colore): Yamasaki Yutaka. Luci: Sato Yuzuru. Musica: Ua. Suono: Mori Eiji. Montaggio: Anraku Shōtarō, Kawase Naomi, Sanjo Tomō. Interpreti e personaggi: Fukunaga Kōhei (Shun), Hyōdo Yuka (Yu), Kawase Naomi (Reiko), Namase Katsuhisa (Taku), Higuchi Kanako (Shōko). Produzione: Nagasawa Yoshiya, per Real Product. Distribuzione: Nikkatsu. Durata: 98′. Uscita nelle sale giapponesi: 12 luglio 2003.
Presentato in concorso al Festival di Cannes nel 2003.
Un giorno d’estate, mentre la città è impegnata a celebrare la festa del dio Jizo, i due gemelli Shun e Kei giocano nel cortile di casa. Ad un certo punto, e senza nessuna spiegazione, Kei si mette a correre, inseguito dal fratello Shun. Uno dietro l’altro attraversano i vicoli della vecchia città di Nara, arrivano fino al limitare del bosco quando, improvvisamente, Kei scompare quasi davanti agli occhi del fratello. A nulla servono le ricerche della madre Reiko e del padre Taku: il bambino sembra essersi dissolto nel vento.
Cinque anni dopo ritroviamo la famiglia Aso nella stessa casa. Shun ora ha diciassette anni, frequenta la scuola d’arte e trascorre il tempo con l’amica Yu, mentre Reiko è incinta e Taku, che fa l’incisore, è a capo del comitato che organizza la stessa festa d’estate. Apparentemente la vita sembra scorrere con normalità, ma nei loro cuori il tempo si è fermato a quel giorno che non riescono più a dimenticare. Shun è un giovane introverso e taciturno, impegnato a dipingere il ritratto del fratello scomparso, di cui, però, nessuno parla. Accanto a loro vive Yu con la madre Shōko. Anche loro sono impegnate nella preparazione della festa e trascorrono il tempo a decorare la casa e rivedere i dettagli del costume che la ragazza dovrà indossare alla parata. Un giorno un uomo arriva nella casa della famiglia Aso per annunciare di aver trovato il corpo di Kei e, quasi contemporaneamente, Shōko racconta alla figlia la vera storia della sua nascita: in realtà Yu è la figlia di suo fratello ma l’uomo morì in un viaggio quando la figlia era appena nata. Il dolore della perdita gettò la moglie nella disperazione al punto da spingere la famiglia ad affidare la bambina alla zia.
Il giorno della festa si ritrovano tutti attorno alla sfilata. Yu guida la danza mentre gli altri osservano e partecipano della grande energia che si sprigiona alla parata. Neppure la pioggia riesce a spegnere l’entusiasmo che, anzi, si accende di gioia. Pochi giorni dopo, Reiko partorisce il suo bambino, letteralmente circondata dall’affetto di tutti i suoi cari. Ognuno di loro ora è pronto a guardare al futuro, custodendo nel cuore le persone perdute.
Ancora una volta Naomi Kawase sceglie Nara come ambientazione di questa storia che richiama alla mente i suoi primi film, quando al centro c’era la sua quotidianità, la vecchia zia e le riflessioni luminose sulla vita e sul senso profondo della memoria intima, le ferite e le gioie del passato. Sharainizia nel segno dell’assenza e prosegue in quello di una ricerca che potremmo definire enigmatica ma vitale. Storia di cuori spezzati che vagano con stupore nei luoghi di sempre e si lasciano dolcemente distrarre dal sole e dal vento. Kawase descrive prima di tutto gli elementi, l’aria, il calore del sole, il rumore del vento tra gli alberi, la quiete, ma anche gli odori d’inchiostro e di pioggia, li filma con passione e fiduciosa attesa, li osserva mentre trasformano le piccole cose, quei molti dettagli di cui sono fatte le vite dei suoi personaggi. In questo racconto appena accennato, senza spiegazioni né indizi, si cela il senso di un film pregno della flagranza della vita e di un cinema capace di farsene specchio. Il segreto sta nel divenire delle cose, nel saper cogliere l’attimo preciso del cambiamento, quando è possibile mostrare ciò che non è visibile, come quando il vento genera movimenti capaci di descriverlo. Guardare, dunque, per Kawase, significa coinvolgere tutti i sensi, cercare con gli occhi il mistero che esiste intorno alle sue storie. “Quando avete la possibilità di risplendere, approfittatene”, si dice, ad un certo punto. Una battuta apparentemente slegata dal contesto narrativo, ma così esplicativa della sensibilità della regista, da poter raccogliere e interpretare il senso ampio di un film che è ancora una volta ricerca della distanza giusta per guardare il mondo. Ecco la ragione di un uso tanto insistito quanto necessario della macchina a mano, che segue la corsa dei due bambini, ma si interroga anche di ciò che accade in una stanza vuota, in un tempo tra passato e presente impossibile da definire. Il movimento dominante è quello dello sguardo che si avvicina, si allontana e si avvicina nuovamente per mettere a “fuoco”, metafora di una nascita che si ripete ad ogni immagine, fino alla fine, con l’attesa nascita del bambino che forse colmerà parte del vuoto lasciato da chi se n’è andato. Lo stesso movimento, di avvicinamento e allontanamento, è ripetuto dai personaggi del film, nel loro cercarsi studiato e silenzioso, che all’inizio è lontananza – come se fosse impossibile per loro stare nella stessa inquadratura contemporaneamente – e, alla fine, scoperta, di sé e del proprio reale starenel mondo, il ritrovarsi semplicemente nell’immagine dell’altro, come di fronte ad uno specchio o, per il giovane Shun, nel ritratto finalmente finito del fratello scomparso. Per questo, all’inizio del film, dopo la scomparsa di Kei, ritroviamo uno a uno i personaggi della famiglia Aso: Shun torna da scuola in bicicletta, incontra il padre sulla porta, ma le loro strade si dividono subito nel doppio corridoio interno della casa. Lo osserva Reiko che, però, prosegue in un’altra stanza, verso la finestra. Traiettorie spiazzanti perché anziché convergere si allontanano. Protagonisti di un raffinato gioco di equilibrio che li porta a scivolare separatamente nello spazio, nella stessa casa, che per loro sembra snodarsi come un labirinto, e nella stessa città (anzi, l’antico nucleo di Nara, non a caso città natale della regista e da lei molto amata), che si fa intricato percorso di strade e cortili. Si incontreranno definitivamente per strada, uniti dallo spettacolo ipnotico della parata di Basara e sorpresi dalla pioggia scrosciante come definitivo elemento di purificazione e superamento dei nodi della vita di ciascun personaggio.  
Sharaè un film circolare nella sua struttura di attesa e di ripetizione. I rumori si legano alla musica, i suoni propongono un ritmo monotono e aperto (viene in mente Hotaru, altra opera “materna”, di distanze da riempire e voci che risuonano da un passato che è anche lontananza). Necessaria, allora, appare, la ripetizione della scena iniziale, con la corsa dei due fratelli Kei e Shun, e la scomparsa misteriosa del primo. È come se il film iniziasse due volte, un tornare indietro che è aprire gli occhi per rivedere e rivivere un preciso momento, rivederlo e cambiarlo per viverlo diversamente. Ma il sogno dura un istante, oppure il sogno è tutto il film, che, infatti, ripensa se stesso per liberarsi alla fine, sui tetti, sulle case e sui prati che circondano Nara.
Opera ancora una volta autobiografica di Kawase, che ha dato al suo cinema, almeno fino a questo punto, la forma del diario, dove la vita si manifesta via via che viene filmata, ridefinita in una narrazione che è riappropriazione di sé, ricerca di un’identità sfuggente, da ricostruire attraverso i gesti cui nessuno fa più caso. Gesti, anzi, che sono interrogativi esistenziali e, come tali, trovano esatte corrispondenze: il vento che scompiglia i capelli di Shun un istante prima di distrarsi e perdere di vista il fratello, la mano che tocca i capelli sul ritratto di Kei appena finito.  Ombra e Luce sono i due ideogrammi che Taku traccia con il pennello intinto nell’inchiostro nero. Tra questi due opposti si disegna la sostanza di un film che scorre per frammenti e si inabissa in profonde ellissi, come se non ci fosse distinzione tra passato e presente perché ogni cosa rivive in una sorta di urgenza antica.  [Grazia Paganelli]
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