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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

Kokuhaku (告白, Confessions)

I migliori film del cinema giapponese dal 2000 a oggi scelti dalla redazione di Sonatine

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Kokuhaku (告白, Confessions). Regia: Nakashima Tetsuya. Soggetto: dal romanzo omonimo di Minato Kanae. Sceneggiatura: Nakashima Tetsuya, Nagasaka Yukiko. Fotografia: Ato Masakazu, Ozawa Atsushi. Scenografia: Kuwashima Towako. Montaggio: Koike Yoshiyuki. Musica: Kanahashi Toyohiko. Direttore del suono: Ōgawara Masaru. Interpreti e personaggi: Matsu Tatako (Moriguchi Yuko), Nishii Yukito (Watanabe Shūya, lo studente A), Fujiwara Kaoru (Shimomura Naoki, lo studente B), Kimura Yoshino (Shimomura Yuko, la madre di Naoki), Hashimoto Ai (Kitahara Mizuki), Okada Masaki (Terada Yoshiteru), Yamaguchi Makiya (Sakuranomiya Masayoshi). Produzione: Ishida Yūji, Kawamura Genki, Kubota Yoshihiro, Suzuki Yutaka per Tōhō Company, Hakuhodo Media Partners, Faith Wonderworks, Licri, Futabasha Publishers, Nippon Shuppan Hanbai, Sony Japan Music Entertainment, Yahoo Japan Corporation, Tsutaya Group. Durata: 106’. Uscita nelle sale giapponesi: 5 giugno 2010.
 
Hong Kong Film Festival 2011: Miglior film asiatico. Japanese Academy Award 2011: Miglior film, sceneggiatura, regia e montaggio. Kinema Junpo Award 2011: Secondo premio come miglior film. Udine Far East Film Festival2011: Premio del pubblico come miglior film. Dubai, Glasgow, Mumbai, Stockholm, Toronto, Udine.
 
La professoressa Moriguchi annuncia alla sua classe la decisione di ritirarsi dall’insegnamento in seguito alla tragica morte della figlioletta Manami, annegata un mese prima nella piscina della scuola. Secondo l’indagine della polizia la morte andrebbe imputata a una caduta accidentale, ma la professoressa scopre e rivela agli allievi che la bimba è stata uccisa da due di loro, il brillante studente A, che intende diventare famoso grazie a tale omicidio, e il problematico studente B, protetto e giustificato da una madre che non vuole riconoscerne il forte disagio psichico. Essendo tredicenni, però, i due non possono essere perseguiti dalla giustizia e così la professoressa, invece di denunciarli, mette in atto nei loro confronti un elaborato piano di vendetta.
Confessions è il cupo revenge movie con il quale Nakashima, accantonati i colori fluo e le atmosfere surreali di Kamikaze Girls e Memories of Matsuko ma non le tematiche più tipiche del suo cinema, si misura con il genere del thriller psicologico screziato di horror. Ancora una volta, il film ha una protagonista femminile, e femminile è la sua fonte d’ispirazione, il romanzo Confessione di Minato Kanae (trad. it. di Gianluca Coci, Giano Editore, 2011). La trasposizione cinematografica vi aderisce fedelmente, svolgendo i temi della responsabilità morale dell’individuo, il ruolo (meglio, il fallimento) delle istituzioni familiari, scolastiche e giudiziarie, la morbosità della stampa e la banalità dei new media per parlare di adolescenza, solitudine e imitazione.
Il lavoro di sceneggiatura e regia fa propria la coralità delle voci narranti e la struttura in capitoli del romanzo, inframmezzandoli con inquadrature riflesse in uno specchio deformante a testimoniare l’illusorietà del reale (immagini apparentemente innocenti o gioiose anticipano le successive malvagità: l’incontro fra lo studente A e lo studente B, l’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze primaverili) e riproducendone l’atmosfera stagnante e i frequenti passaggi ironici, tipicamente black comedy (esemplare l’incipit, nel quale gli scolari, sulle note di una canzoncina infantile, sono impegnati a bere la razione quotidiana di latte indicata dalle autorità perché crescano in salute: salvo poi scoprire che la professoressa Moriguchi – alle spalle della quale campeggia l’ideogramma «vita» disegnato alla lavagna – ha iniettato sangue infetto dal virus HIV nelle due confezioni destinate allo studente A e allo studente B).
Il mondo giovanile è rappresentato – più che giudicato – in modo impietoso: il microcosmo della classe appare privo di amicizia e di legami affettivi. L’omicidio è soltanto l’occasione per sottoporre a quotidiane vessazioni lo studente A e Mizuki, ingiustamente incolpata di aver denunciato in forma anonima gli atti di bullismo; i ragazzi esprimono apertamente gioia quando la professoressa Moriguchi annuncia il suo ritiro dalla scuola, sbadigliano quando si domanda se sia stata una buona insegnante e ridono delle lacrime versate dall’unica allieva commossa per la morte della bambina. Grava sui personaggi il peso dell’isolamento, le relazioni familiari sono interrotte (dalla malattia intesa quale castigo per una precedente vita sregolata, nel caso del padre di Manami; dalla carriera universitaria inseguita dalla madre dello studente A; dalla semplice assenza del padre dello studente B) e le amicizie soltanto opportunistiche (lo studente A utilizza lo studente B e la sua ansia di relazioni umane).
Le regole scolastiche e quelle giudiziarie finiscono per perdere di vista lo scopo delle istituzioni che le hanno introdotte. I rapporti personali fra insegnanti e allievi sono impediti per prevenire accuse di molestie; i minori sfuggono alla punizione dei reati commessi e vivono nel limbo dell’irresponsabilità, sostenuti e giustificati da genitori non più in grado di comprendere il reale e, quindi, di educare (la madre dello studente B contesta alla professoressa Moriguchi di dedicarsi alla figlia più che ai suoi allievi; puntualmente, il figlio indica la bimba allo studente A quale bersaglio della macchina di morte proprio per punire l’insegnante).
Apertamente negativo il giudizio su media e nuove tecnologie. Gli scarni messaggi che appaiono sui cellulari degli allievi recano bullismo, assenza di compartecipazione emotiva, valori negativi; la videocamera è il veicolo dell’allucinata confessione del piano omicida dello studente A, che pubblica sul web le macchine di morte da lui create; i quotidiani offrono largo spazio ai delitti commessi dagli adolescenti; la televisione dedica ai più giovani programmi trash. Ritorna poi il tema dell’imitazione, che transita dai prodotti griffati di Kamikaze girls a quella dello studente A, che aspira alla fama emulando i criminali adolescenti resi celebri dalla stampa.
Sul piano stilistico, le caratteristiche salienti del film sono l’utilizzo del ralenty e il viraggio della fotografia. L’insistito ricorso alle immagini rallentate sottolinea i momenti più drammatici e la frequente rappresentazione di elementi liquidi (l’acqua, il latte, il sangue) così come piccoli frammenti della storia (apparentemente non così significanti, ma funzionali alla creazione di un mood: la pioggia che cade, i ragazzi che saltano nelle pozzanghere) e semplici oggetti in movimento, che rimarcano la gratuita cattiveria protagonista del film (il cartoccio di latte gettato addosso a un compagno, quello buttato per terra; la cartella svuotata nel cestino per dispetto; la scarpetta di Manami che galleggia in piscina). Il medesimo effetto di enfasi è raggiunto dalle scelte di colore, che oppongono il disperato presente del racconto, ritratto in un cupo grigio bluastro sovrastato da un cielo perennemente nuvoloso, ai momenti felici del passato, le cui immagini scorrono, senza artifici, nei loro vividi colori originali.
Le scelte di regia evitano che il film diventi troppo parlato e debitore della sua ispirazione letteraria anche grazie ai movimenti della professoressa all’interno della classe, che nell’indifferenza dei ragazzi cammina fra i banchi aprendo porte, finestre e divisori, talvolta rivolgendosi direttamente allo spettatore. È come se la protagonista cercasse, senza trovarla, una via d’uscita all’epilogo – la vendetta retributiva – preannunziato dalla lineare geometria dei suoi lenti e studiati movimenti.
Il montaggio è spesso alternato, soprattutto nella prima, riuscitissima parte del film, durante la confessione della professoressa. Le parole della protagonista si avvicendano così alle immagini del passato, raccontato da brevissimi flashback «Kitano – style» (la nascita di Manami e la sua infanzia; l’episodio del centro commerciale con il capriccio della bimba; il suo omicidio e la cerimonia funebre; l’incontro fra la professoressa e la madre dello studente B), agli stacchi sugli allievi e sugli schermi dei loro telefoni cellulari, con gli stringati sms scambiati dai ragazzi a comunicarne il vuoto emotivo e morale.
Interessante anche la colonna sonora (in parte originale, ma con il leit motiv della canzone Last Flowers dei Radiohead) e, soprattutto, il lavoro su suoni e rumori, dove ritorna l’attenzione per i particolari, cui Nakashima affida taluni passaggi narrativi (la confessione della professoressa Moriguchi è annunciata e conclusa dal rumore dei registri contro la cattedra) e la creazione della temperatura emotiva dell’opera (si pensi alle urla lancinanti dello studente B). La protagonista Matsu Tatako, infine, è pressoché perfetta nel rendere glaciale il dolore e diabolica la vendetta. [Gian Piero Chieppa]
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