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Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

Odayakana nichijō (おだやかな日常, Odayaka)

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Odayakana nichijō (おだやかな日常, Odayaka). Regia, sceneggiatura e montaggio: Uchida Nobuteru. Fotografia: Tsunoda Shin’ichi. Suono: Jo Keita. Interpreti e personaggi: Watanabe Makiko, Koyanagi Yū, Sugino Kiki, Yamada Maho, Terajima Susumu, Watanabe Ami, Yamamoto Takeshi, Shinohara Yūki. Produzione Sugino Kiki per Wa Enterteinmet. Durata: 102’. Uscita nelle sale giapponesi: 22 dicembre 2012.
Punteggio ★★★1/2

Ennesima variazione sul tema della tragedia di Fukushima, Odayaka di Uchida Nobuteru, già autore dell’interessante Love Addiction, si apre in un interno domestico subito colpito da una scossa di terremoto. È il punto d’avvio di una storia che verte su due donne vicine di casa: Saeko e Yukako. La prima con una figlia in età d’asilo viene, il giorno stesso del terremoto, lasciata dal marito. La seconda è moglie del gentile Tatsuya, col quale, come si apprenderà in seguito, non ha potuto avere un figlio a causa di un aborto spontaneo. Ciò che accomuna le due donne è il loro diffidare delle rassicuranti notizie ufficiali a riguardo della nocività – o meglio della non nocività – delle radiazioni. Saeko si premura che la figlia porti sempre sul viso una mascherina, chiede al direttore dell’asilo – che ironicamente vediamo sempre con un grembiulino indosso quasi a volerne sminuire l’autorità, un po’ come i padri in mutande dei film di Ozu – di misurare le radiazioni del cortile, prepara lei stessa il cibo per la bambina perché non si fida di quello della mensa. Dal canto suo, anche Yukako indossa sempre una mascherina e chiede di fare altrettanto al marito, trascorre parte del suo tempo a leggere in internet gli esiti del disastro di Chernobyl, va anche lei all’asilo a distribuire mascherine ai bambini. In molte occasioni il montaggio associa le due protagoniste mostrandole in simili situazioni – come quando leggono sul giornale la notizia degli spinaci contaminati o diffidano del pesce locale in vendita nei supermercati della città. Tutte e due, poi, si ritroveranno a dover fronteggiare le accuse di coloro che credono, e vogliono credere, alla verità ufficiali, come le madri degli altri bambini dell’asilo, che chiedono ad esse ragione del loro comportamento, le rimproverano con violenza di seminare il panico, e le domandano se per caso non appartengono a qualche setta religiosa. È Saeko, in particolare, ad essere vittima di questa discriminazione, come è evidente nelle scene in cui riceve telefonate e missive anonime con espliciti inviti ad andarsene o minacce di morte. L’incontro fra le due donne avverrà nel momento più drammatico del film: quando anche in conseguenza alle minacce subite, Saeko tenterà, insieme alla bambina, il suicidio e sarà salvata proprio dalla vicina avvertita dal puzzo del gas.
Ora l’assunto di Odayaka è abbastanza chiaro: da una parte c’è chi crede all’autorità per il bene del paese – facendo appello, come afferma il capoufficio di Tatsuya, al “Japanese Spirit”, lo dice proprio in inglese – rimboccandosi le maniche e agendo come un tutt’uno, e chi invece ne diffida e non crede alle verità ufficiali, come appunto fanno Saeko e Yukako. Il film è costruito dal punto di vista delle due donne che diffidano, sta dalla loro parte, sono loro le eroine, sono loro i personaggi di cui lo spettatore è portato a condividere i sentimenti. Ma, perché un “ma” c’è, si tratta di due donne segnate da un profondo momento di crisi: l’una perché lasciata dal marito e costretta a gestire da sola la figlia in un momento così difficile, e l’altra in conseguenza ad un aborto non voluto (il film si concluderà non a caso col  tentativo suo e del marito di provare ad avere un nuovo figlio). Allora le possibilità sono due: o è la situazione di crisi vissuta che spinge le due protagoniste – una “non moglie” e l’altra “non-madre” – ad un “eccesso di diffidenza” (il che giustificherebbe, almeno in parte, le accuse di “nevrastenia” mosse loro dalle altre madri) o è questa stessa crisi che le rende più sensibili a ciò che le circonda e le mette (giustamente) in guardia dalle verità ufficiali. È sul filo di questa ambiguità che si muove – nel bene e nel male – Odayaka.
Concludiamo le nostre osservazioni con una nota stilistica: il film è quasi interamente affidato all’uso della macchina a mano – caratteristica questa abbastanza diffusa in molto cinema indipendente, giapponese o no –, cosa che non ne costituirebbe così una particolare originalità. Ma dal momento che questa modalità di rappresentazione prende l’avvio all’inizio del film con la già citata scossa di terremoto, si viene a creare un’associazione fra le scosse del terremoto e quelle dell’immagine, che rende la scelta onnipresente della macchina a mano un modo in cui le conseguenze del terremoto permangono nella vita delle due protagoniste, anche dopo che esse sono terminate. Raramente ho visto un film in cui la scelta della macchina a mano è stata più pertinente e logica sul piano espressivo. [Dario Tomasi – Busan Film Festival]
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