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11.25 Jiketsu no hi: Mishima Yukio to wakamonotachi (11.25自決の日 三島由紀夫と若者たち, 11:25 The Day He Chose His Own Fate)

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11.25 Jiketsu no hi: Mishima Yukio to wakamonotachi (11.25自決の日 三島由紀夫と若者たち,  11:25 The Day He Chose His Own Fate).  Regia: Wakamatsu Kōji. Sceneggiatura: Wakamatsu Kōji, Kakegawa Masayuki. Fotografia: Mitsuwaka Yūsaku, Tsuji Tomohiko. Montaggio: Sakamoto Kumiko. Musiche originali: Sakahashi Fumio. Interpreti: Arata, Terajima Shinobu, Nakaizumi Hideo, Kan Hanae, Suzuki Shinji, Shibukawa Kiyohiko, Jibiki Gō, Tsujimoto Kazuki, Shinohara Katsuyuki, Masuda Toshiki, Okabe Nao, Iwama Takatsugu, Ochiai Motoki, Ogura Ichirō, Mitsushima Shin’nosuke. Produttore esecutivo: Wakamatsu Kōji. Produttori: Obinata Atsushi, Ozaki Noriko. Durata: 119′. Prima mondiale: Festival di Cannes 2012. Uscita nelle sale giapponesi: 2 giugno 2012.
Il film viene proiettato oggi al 30° Torino Film Festival (altre proiezioni il 24, 27 e 30 novembre).

Il film segue gli ultimi anni di vita di Mishima Yukio, dal 1967 circa, ed il suo impegno con le forze di autodifesa prima e con la Tate no kai poi, fino agli eventi che porteranno lo scrittore giapponese e altri quattro membri del gruppo ad occupare e barricarsi nell’ufficio del generale Mashita il 25 novembre 1970. Qui, prima Mishima dal balcone terrà un discorso ai soldati dell’esercito di autodifesa per convincerli ad effettuare un colpo di stato e poi, tornato all’interno, come programmato, si toglierà la vità assieme al suo discepolo più vicino Morita Masakatsu. 
Wakamatsu conclude con questo film, girato in tredici giorni, la sua trilogia “storica”, quella sul giappone post bellico iniziata col fluviale United Red Army, sull’autodistruzione di speranze ed ideali dei membri della Sekigun, e proseguita con Caterpillar, sugli orrori della mobilitazione totale durante la guerra del Pacifico. Lo stile di quest’opera ricorda molto il primo film con il suo continuo andare e venire fra immagini di repertorio e finzione, procedimento che è usato qui per scandire il ritmo cronologico degli eventi e (ri)immergere lo spettatore nell’atmosfera del tempo, nel limite del possibile naturalmente. Essendo la gigantesca figura di Mishima Yukio e la sua fine conosciutissimi, verrebbe da dire più all’estero che in patria, uno dei rischi di quest’opera è che venga approcciata, da esperti o meno, come una biografia (anche se parziale) degli ultimi anni di vita del famoso scrittore, trovando quindi al suo interno punti di vista che non collimano con l’immagine “vera” su Mishima.  Il titolo giapponese 11.25 Jiketsu no hi: Mishima Yukio to wakamonotachi, però, ci aiuta a capire da che punto di vista si pongono Wakamatsu e Kakegawa Masayuki, co-autori della sceneggiatura. 11 Novembre, il giorno del “suicidio”: Mishima Yukio e i giovani, prima di tutto ciò che il titolo ci aiuta a capire è che uno dei temi portanti del film è il rapporto dello scrittore con le nuove generazioni, sia quelle a lui politicamente vicine ma anche quelle più distanti ideologicamente. Importante è poi notare come la parola che abbiamo sopra tradotto con “suicidio” in realtà andrebbe resa come “autodeterminazione”, “scegliere con le proprie mani il proprio destino” e quindi la morte più consona, più bella. Questa ricerca di una morte che sia la più bella possibile, dove l’aggettivo deve essere inteso nel modo più ampio possibile, è una costante di tutto il film, ritorna spesso nelle conversazioni fra Mishima e il gruppo del Tate no kai ed è parte naturalmente anche del Mishima scrittore. Gli esempi potrebbero essere tantissimi ma ricordiamo qui almeno il suo commentario sullo Hagakure che è proprio di questo periodo, lo scrisse infatti nel 1967, con la sua insistenza sulla vita vissuta per la morte. Lo sguardo di Wakamatsu si focalizza quindi sull’estrema volontà, quasi allucinata in certe occasioni, di cercare e volere la propria morte e in questo senso c’è una sincera ammirazione e rispetto del vecchio regista per una persona politicamente distante anni luce dalle sue idee. La sfida che Wakamatsu ha gettato ad Arata (che perdipiù veniva da un’operazione alla gamba), quella di impersonare un personaggio così difficile e multisfacettato, a nostro parere è stata vinta. C’è uno scarto fra Mishima Yukio, nome d’arte che usa come scrittore, e Hiraoka Kimitake, il suo vero nome. Questo è esplicitato da lui stesso quando abbandona il suo essere uomo di letteratura per unirsi alle forze di autodifesa usando il suo vero nome e trova una risonanza cinematografica quando Wakamatsu è bravo a creare nella casa dello scrittore, dove solitamente veste con un kimono, un’atmosfera algida, fredda, geometricamente determinata da un frequente uso di inquadrature dall’alto e da una serie di movimenti e gesti eleganti. Al contrario nelle esercitazioni alle pendici del monte Fuji in mezzo al giallo paglierino dei “susuki” o nelle riunioni del Tate no kai, quando tutti sono rigorosamente vestiti in uniforme, siamo di fronte all’uomo Hiraoka. Questo iato di cui lo stesso Mishima è naturalmente conscio ritorna verso la metà del film quando Morita, il discepolo ( e forse amante) che si toglierà la vita assieme al maestro, gli confessa di non capire i suoi libri perchè troppo difficili. Allora il film è anche il tentativo di liberarsi da parte di Mishima della pesante presenza dello stesso Mishima, quell’andare oltre la maschera per toccare la vita là dove risuona più forte e cioè nella morte. 
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Cinemaskhole-Anteprima del film

La prima parte dell’opera si sviluppa abbastanza fluidamente, la decisione di Mishima di entrare nelle forze di difesa nel 1967 si estremizza e dopo circa un anno lo porta a formate il gruppo della Tate no kai. Qui le sue posizioni diventano vere e proprie ossessioni contro il governo, contro l’incapacità e l’inanità delle forze di autodifesa e naturalmente contro i gruppi universitari di sinistra. Una delle scene centrali del film è proprio il dibattito, avvenuto realmente e addirittura filmato (si possono vedere alcuni passaggi in questa pagina di Youtube) nel maggio del 1969 fra Mishima e la Tōdai zenkyōtō, uno dei gruppi del movimento studentesco, all’interno di un’università occupata. Vediamo qui un Mishima molto scherzoso ed ironico che riesce a tenere benissimo la scena quasi come una star, e a questo proposito non va dimenticato che nell’ultima parte della vita è stato anche attore in alcuni film (Afraid to Die, Black Lizard e Hitokiri) e regista (Patriotism). 

Forse anche perchè il finale non rappresenta certo narrativamente parlando una sorpresa, tutti sanno infatti come va a finire il film, l’opera perde un po’ di slancio nella parte centrale, un taglio di una ventina di minuti avrebbe forse giovato ad un film che per sua struttura ha un ritmo lento. Si riscatta ampiamente nell’ultima mezz’ora finale, dove l’intensità delle performance di Arata e di Mitsushima Shin’nosuke (Morita) raggiungono il loro massimo, specialmente nella scena del cerimoniale con katana e musica tradizionale prima del fatidico giorno, scena bellissima, astratta, dove prevalgono il bianco dell’abito di Mishima ed il verde e l’oro del fondale. Questa scena per la sua posizione nel flusso degli eventi, il finale è incombente e ne siamo attirati come da un raggio trattore, dona un significato particolare alla restante parte dell’opera, è come una boccata di ossigeno puro prima dell’inevitabile finale.
Un momento topico è quello dal balcone del palazzo dove si trova l’ufficio del generale Mashita che Mishima ed i quattro membri del Tate no kai hanno occupato il 25 novembre 1970, da qui lo scrittore si rivolge ai membri dell’esercito di autodifesa presenti sotto l’edificio per convincerli a realizzare un colpo di stato. La forza delle parole dello scrittore ed il suo invasamento vengono però a poco a poco sovrastate dal brusio prima e dal frastuono poi della massa davanti al palazzo che per tutta la durata della scena noi non vediamo. Massimo di determinazione personale ma allo stesso tempo sconfitta assoluta a livello politico e sociale, questo ci sembra suggerire la scena. Ritornato all’interno, Mishima si squarcerà il ventre e dopo il colpo rituale definitivo fallito da Morita, sarà un altro membro del Tate no kai a decapitarlo. Di questa morte e di quella successiva di Morita non vediamo niente se non i loro visi sconvolti dal dolore ma accesi dalla determinazione ed il sangue è solo quello presente sulla lama. 
L’immagine salta quindi su un ciliegio in fiore, di una tonalità così accesa che mai è stata usata nel corso dell’opera, e poi sul rosso delle foglie autunnali degli aceri. Non sono, come potrebbero sembrare, immagini patetiche e banali, ma, per la posizione che occupano, provocano una sorta di rilascio di tutta la tensione accumulata durante il film e sono simboli naturali della conclusione della vita di Mishima. Ma sono gli ultimi minuti che esprimono tutti i sentimenti di Wakamatsu e di Kakegawa verso la vicenda nel suo complesso: dopo aver rappresentato gli anni finali di Mishima con assoluto rispetto per le sue scelte, per la forza con cui le ha portate avanti, vediamo la moglie dello scrittore (Terajima) passeggiare a cinque mesi dalla morte alle pendici del monte Fuji dove il marito era solito esercitarsi con i compagni. Pronuncia solo queste parole “non è cambiato niente” e l’inquadratura si allarga per mostrarci il vulcano spento simbolo del Giappone ma per Wakamatsu, come dichiarato più volte, simbolo nefasto del suo paese e della sua immobilità ed impossibilità a cambiare. La donna ritorna anche nell’ultimisssima scena, siamo in un bar con uno dei membri sopravvissuti  del Tate no kai, ad un certo punto lei gli chiede cosa abbia lasciato quando è uscito dalla stanza in cui il marito è morto. Il ragazzo come risposta apre entrambe le mani, come a voler dire niente, ma a questo punto l’immagine si ferma ed in sovrapposizione sulle mani scorrono i titoli delle opere di Mishima. [Matteo Boscarol]
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