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Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

Paprika (パプリカ)

I migliori film del cinema giapponese dal 2000 a oggi scelti dalla redazione di Sonatine
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Paprika (パプリカ). Regia: Kon Satoshi. Soggetto originale: da un romanzo di Tsutsui Yasutaka. Sceneggiatura: Minakami Seishi, Kon Satoshi. Voci e personaggi: Hayashibara Magumi (Chiba Atsuko/Paprika). Ōtsuka Akio (detective Konakawa Toshimi), Furuya Tōru (il dottor Tokita Kōsaku), Emoru Tōri (dottor Inui Seijirō). Musiche originali: Hirasawa Susumu. Fotografia: Katō Michiya. Montaggio: Seyama Takeshi. Animazione: Madhouse. Produzione e distribuzione: Sony Pictures. Lunghezza: 90′. Uscita nelle sale giapponesi: 25 novembre 2006.

Siamo in un futuro prossimo e l’invenzione di una nuova tecnologia denominata DC-Mini, creata dal dottor Tokita, permette di entrare nei sogni altrui. La macchina è ancora top secret, nonostante questo però la dottoressa Chiba Atsuko la usa illegalmente al di fuori del laboratorio dove lavora con Tokita, per aiutare le persone a liberarsi dalle proprie ossessioni. Durante queste sessioni psicoterapeutiche all’interno dei sogni, la donna diventa Paprika, il suo alter-ego onirico. Quando tre di queste macchine vengono rubate, i sospetti principali cadono sull’assistente di Tokita, Himuro, ma le cose non sono sempre quelle che sembrano. Incomincia a questo punto l’indagine e la caccia al colpevole, Chiba/Paprika viene aiutata da un suo paziente, il detective Konakawa.
È un filo che intreccia i generi di fantascienza e mistery quello che passa e unisce tutta la superficie narrativa di Paprika, con tanto di colpevole, o presunto tale, che alla fine viene svelato. Ma questo lavoro di Kon Satoshi offre una serie infinita e quasi a scatole cinesi di percorsi narrativi per immagini, siamo di fronte ad un’opera che tende a mischiare le carte e a confondere, sia narrativamente, con i reami del sogno e quello della realtà di fatto sovrapposti, quanto stilisticamente. Si parte da una situazione che sembrerebbe normale dove sogno e realtà quotidiana sono ben distinti, per poi far esplodere il tessuto filmico e visivo in un rutilante fiorire di immagini e simboli, sempre più pressanti e presenti via via che il film procede. In verità già dalla prima scena siamo introdotti in un mondo che è circo onirico, un pagliaccio che esce da una piccolissima automobile ci presenta lo spettacolo della serata con il detective Konakawa come protagonista. Un cambio di prospettiva però ci rivela come tutte le persone del pubblico siano lo stesso investigatore, ogni persona infatti ha la faccia del baffuto poliziotto. Siamo così fin da subito catapultati in un reale (anche se di sogno) che è gioco e finzione prima di tutto, dove Konakawa rimette in scena situazioni del suo passato, siano esse realmente accadute oppure solamente volute, sperate o immaginate. Tutte comunque sono filtrate attraverso la sua passione segreta, il cinema, ed è chiaro come il detective rappresenti in questo senso una parte della personalità dello stesso Kon.
Soggettività diverse che si muovono e attraversano l’interno dell’individuo, spazio interiore/esteriore che è circo, metamorfosi, specchio (tutti elementi molto presenti in Paprika ed in tutta l’opera del regista) “ l’intero film” come acutamente fa notare lo studioso Steven Shaviro “sembra avere come tema principale l’abbattimento delle soggettività convenzionali”. Questa deriva delle soggettività ha visivamente il suo corrispettivo nelle splendide e quasi iperrealistiche descrizioni di luoghi simbolici come il Luna Park o l’appartamento di Himuro, l’assistente di Tokita. È questo uno dei luoghi più significativi del film, la tana di un “nerd”, un universo baroccamente strapieno di cose e di oggetti, bambole di ogni tipo, robot innestati e mischiati con fotografie, giocattoli, balocchi e tecnologia uniti in un delirio di luci e di ombre che ne fanno una delle immagini più dense ed eccedenti di Paprika. È proprio qui la comparsa spettrale di una bambola giapponese invita Chiba a seguirla attraverso una botola per giungere in un Luna Park deserto. Realizzato con minuzia di particolari ed immerso in un’atmosfera solare, l’immagine animata è così tesa che sembra voler scoppiare da un momento all’altro per eccesso di nitidezza. È una sensazione questa che si avverte per tutta la durata del film, tanto più le immagini animate tendono ad approssimarsi ad un grado di realtà e di veridicità elevati, quanto più la visione diviene allucinatoria e simbolica. Un’allucinazione però fluida, giocosa e lieve frutto di un montaggio pressochè perfetto, della musica così lievemente pop di Hirasawa Susumu e della tavolozza di colori vivida e sgargiante realizzata dagli animatori della Madhouse. Giocosità e fluidità che si preanmunciano già nei titoli di testa quando la protagonista, sorridente e sbarazzina, attraversa la strada dopo aver cristallizzato tutto e tutti come in un istante sospeso. O ancora, fugge a due ragazzi che la importunano “saltando” dentro la maglietta di un passante. L`apice di questo sentire fluido in Paprika è senza dubbio la scena della sfilata, elemento che non compariva originariamente nel romanzo di Tsutsui. Lo stesso Kon ce ne ricorda l’importanza in un intervista, “La sfilata è un qualcosa che mi sono inventato io stesso, è uno dei motivi [del film] più importanti per me e non era presente nella storia originale. […] è anche interessante dove stia andando la sfilata – straripa nella realtà. Comincia nel deserto, il punto più lontano dalla civilizzazione, continua attraverso la giungla e poi sopra un ponte per intrufolarsi alla fine nella realtà.” Tutto sembra liquefarsi in uno stato di continua flessibilità, gli oggetti presenti sono curvati come spinti da un vento allucinatorio, sono ammassati e ripiegati gli uni sugli altri accompagnati da “una sorta di felice e cacofono tecnopop che ci suggerisce la gioia di lasciarci semplicemente andare e di venir trasformati in un cartone animato” come ci ricorda ancora Shaviro. Ma che cosa forma praticamente questo ammasso di oggetti vivi? Una banda di rane meccaniche, frigoriferi e televisori, bambole e statue di divinità o di spiriti giapponesi, robottoni, oche giocattolo, una Statua della Libertà, un portale Shinto, una fila di ombrelli colorati, un Godzilla e su tutto una pioggerellina di “coriandoli” e biglietti multicolori.
Un altra caratteristica che emerge spesso in Paprika formandone uno dei centri significanti è il movimento di disvelamento, il far venire a galla ciò che è nascosto. I vari sogni che nel corso del film si aprono e si chiudono sono spazi creati dalle increspature della superficie della realtà che è essa stessa un sogno barocco, dove abbondano quindi le pieghe. Non è un caso che i vari passaggi da uno stato all’altro avvengano spesso per sollevamento di drappi o, come in una delle scene di massima importanza del film, per sfondamento di membrana. Ci riferiamo alla parte in cui Konakawa irrompe nella camera delle farfalle dove Paprika è tenuta prigioniera, oltrepassando e lacerando lo schermo cinematografico. Siamo sempre in presenza di tele, di drappi e soprattutto di pieghe, anche quando assistiamo alla metamorfosi di Paprika-farfalla che aprendosi come crisalide onirica fa “nascere” la dottoressa Chiba, il tutto avviene come per spogliazione, per caduta delle vesti, è come se un sipario si aprisse. Oppure quando il detective si ritrova a inseguire un ladro nel corridoio di un hotel. Questa visione/sogno, chiara strizzata d’occhio a Shining, si ripete per tutto il film ed è la sua ossessione, il pavimento, le pareti ed il soffitto insomma tutta la realtà si liquefà, si accartoccia e si piega come un tessuto, un telo da togliere per provare a vedere cosa si trova al di là. Secondo la poetica di Kon, la flessibilità e la mascolanza fra reale e immaginario/sogno, il ripiegarsi in mille e più mondi ha nel cinema uno dei suoi referenti principali. Le varie forme che la protagonista assume nel corso del film, da Campanellino a Goki la scimmietta che vola sulla nuvoletta, dalla sfinge edipica alla sirenetta, fino al Pinoccho intrappolato dentro la balena, non sono usati solo per soddisfare un gusto citazionista post-moderno. Ma formano anche una immaginifica costellazione con cui orientarsi e seguendo la quale poter risalire alla composizione della realtà contemporanea e quindi della verità che, come dichiara l’amico di Konakawa nelle ultime battute del film, “nasce dalla finzione”. [Matteo Boscarol]

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