Wakamatsu Kōji’s Caterpillar (キャタピラー, Caterpillar)
Caterpillar (キャタピラー, Caterpillar). Regia: Wakamatsu Kōji. Soggetto: da un racconto di Edogawa Ranpo. Sceneggiatura: Kurosawa Hisako, Deguchi Deru. Fotografia: Okubo Reiji. Montaggio: Kakesu Shuichi. Effetti speciali: Nishio Kazuhiro, Tateishi Masaru. Musica: Kubota Sally, Okada Yumi. Interpreti e personaggi: Terajima Shinobu (Kurokawa Shigeko), Kasuya Keigo (Kurokawa Tadashi). Produzione: Wakamatsu Productions. Durata: 85’. Uscita nelle sale giapponesi: 14 agosto 2010.
Berlino Film Festival 2010: Migliore attrice.
Altri Film Festival: Edinburgh, Hong Kong, Buenos Aires, Stockholm, Toronto, Torino.
Primi anni 1940, guerra sino – giapponese. Il tenente Kurokawa torna al suo villaggio mutilato nel corpo (ha perso entrambe le gambe e le braccia), deturpato in viso, sordo e incapace di esprimersi a voce. Gli atti di barbarie compiuti in danno della popolazione civile – il saccheggio, gli incendi, lo stupro di una giovane donna – non impediscono che il reduce sia accolto come un eroe di guerra dalla popolazione e acclamato quale esempio di attaccamento alla patria dalla stampa. La moglie Shigeko si trova quindi a doversi prendere cura del dio della guerra, ormai ridotto a un fagotto di carne, e soddisfarne gli insaziabili appetiti di cibo e sesso. La nuova situazione consente però alla donna di superare ogni paura e subalternità ne confronti del marito, incapace di reggere l’irreversibile condizione di larva umana e il ricordo incancellabile dei crimini di guerra.
“Ci sono cose che posso perdonare e cose che non posso perdonare”: la dichiarazione di principio del disturbato aguzzino protagonista del lavoro giovanile Embrione contiene in sé tutto il cinema di Wakamatsu. Nessun perdono per la guerra e le costrizioni sociali, la sudditanza del cittadino alla retorica della patria imperialista e della donna nella famiglia e nella vita sessuale.
Caterpillar insiste una volta di più sui temi cari all’autore, costruendo attorno al corpo mutilato del tenente Kurokawa un’opera potente sul piano visivo e dei contenuti nella quale la narrazione si sviluppa attraverso l’accostamento di elementi antitetici. Gli ambienti del racconto sono la casa e il villaggio, che oppongono la claustrofobia dell’ambito domestico (che nel cinema di Wakamatsu diventa una gabbia già con gli impersonali condomini alveare e agli angusti appartamenti di Segreti dietro il muro e l’appartamento – prigione di Embrione) al respiro e alla dolcezza della natura circostante (elemento che ritorna spesso negli ultimi lavori del regista, da 11.25 Jiketsu no hi: MishimaYukio to wakamonotachi (11:25 The Day He Chose His Own Fate) a Sennen no yuraku (The Millennial Rapture)). Nell’ambiente chiuso l’apparato retorico di regime (la pagina di giornale che celebra il dio della guerra e le medaglie inquadrate; la sciabola appoggiata alla parete; la foto dell’imperatore e della consorte) si confronta con la cruda realtà della mutilazione. In sottofondo, i programmi radiofonici di stato presentano la battaglia di Okinawa come un successo delle forze armate nipponiche e i bombardamenti di Tokio nel maggio 1945 come un flop degli americani, alternandosi ai suoni gutturali emessi dal bruco.
Le scelte di fotografia vedono la luce lattiginosa del cielo opporsi al buio pressoché totale, di un caldo color marrone quasi lucido, che avvolge l’interno familiare. Le rarissime fonti d’illuminazione presenti nella casa sottolineano la raffinatezza compositiva delle inquadrature, che spesso rimandano all’esperienza pittorica dei martiri e delle crocefissioni quattrocenteschi (il primo piano d’insieme dedicato al tenente Kurokawa, pietoso moncherino infagottato in un kimono bianco) o dei ritratti orientalistici dell’ottocento (il bagno di Shigeko).
La critica dell’espansionismo imperialista passa per la distanza esistente tra la retorica di regime (il falso solenne, l’artefatto politico) e la tragica realtà del ritorno dal fronte. La forza persuasiva dell’informazione deviata finisce così per condurre a epiloghi comici, quando due abitanti del villaggio incontrando il tenente Kurokawa vestito della divisa e trasportato in una carriola lo appellano “dio della guerra” e gli chiedono “come va la salute?”. L’addestramento degli abitanti del villaggio, idilliaca oasi di pace lontana dal teatro delle operazioni, si tramuta in una sorta di parodia; le ripetute celebrazioni in onore del tenente Kurokawa sono canzonate dallo scemo del villaggio (vero controcanto dell’enfasi mistificatoria del potere) e si devono misurare con gli impietosi primissimi piani su mutilazioni e ustioni del reduce. Il montaggio alternato è qui serratissimo, con le onorificenze di guerra e la divisa attentamente ripiegata a legare le inquadrature dedicate al corpo e allo strazio della fisicità, che ripropongono uno dei temi centrali nel cinema di Wakamatsu.
I segni della carne rifuggono da qualsiasi provenienza “naturale” e provengono costantemente dalla violenza dell’uomo sull’uomo: il cheloide radioattivo di Segreti dietro il muro deriva da una delle esplosioni nucleari della seconda guerra mondiale e, in Embrione, le ferite della giovane Yuka sono inferte dalla frusta sadica del suo carceriere. Allo stesso modo, la riduzione ai minimi termini del tenente Kurokawa s’inserisce in un crescendo inarrestabile di follia e dolore nel quale il corpo, che per l’autore è la rappresentazione plastica dell’irrazionalità umana, sviluppa (e subisce) le tendenze autodistruttive e di sopraffazione dell’altro (una sorta di eccesso vitale) nella catena seriale violenza – stupro – omicidio.
Wakamatsu ha espresso molto chiaramente tale aspetto della sua poetica: “nel mio caso, parlando della violenza, il discorso è da ricollegarsi all’invasione e al rilascio. Guardando allo stupro, è ovviamente un atto d’invasione. Nei miei film, nella natura dei miei personaggi, ciò che ho dentro di me diviene visibile sullo schermo in queste immagini. Se una donna viene stuprata, e ciò accade molto spesso nei miei film, lo stupratore poi viene ucciso. Lo stupro è la componente di invasione, l’omicidio il rilascio”.
Sesso come sopraffazione, quindi, e non come relazione interpersonale (i flashbacks dedicati alla vita coniugale prima della guerra e ai crimini commessi in Cina dal tenente Kurokawa); omicidio come liberazione della donna violentata, che inaspettatamente rivela una nuova energia e produce un completo ribaltamento del ruolo imposto alla donna dall’ordine costituito. Shigeko volge a suo vantaggio la retorica ufficiale vestendo il marito della sua divisa e mostrandolo al villaggio quale esempio di attaccamento alla patria (“il dio della guerra deve comportarsi responsabilmente ed essere un esempio”) e usando il sesso come ricompensa (non più qualcosa d’imposto con la forza, bensì concessione femminile attraverso la quale l’uomo si misura con la sua impossibilità di dominio). L’omicidio liberatorio è quindi indotto, passando per una lenta istigazione al suicidio quale epilogo necessitato della presa di coscienza del tenente Kurokawa dell’insostenibilità delle sue condizioni fisiche e del ricordo dei crimini di guerra.
Wakamatsu organizza il punto di svolta del racconto ricorrendo, come in moltissime opere precedenti, alla sovrapposizione delle immagini e dei suoni. Quando il bruco ricorda lo stupro della giovane cinese, il viso di Shigeko si sostituisce a quello della donna violentata; e le urla dell’uomo, ormai consapevole della propria subalternità anche sessuale alla moglie, si confondono con quelle della vittima del suo stupro. L’artefatto visivo interessa anche le immagini di repertorio, interamente virate al rosso nella prima parte del film e pure nelle reiterate immagini dello stupro nel villaggio cinese; altre volte, invece, la direzione di senso del reperto d’archivio è distorta dalla colonna sonora, con le allegre marcette militari ad accompagnare le tragiche immagini della disfatta nipponica.
La bellezza dell’opera è infine debitrice dell’eccezionale prestazione di Terajima Shinobu, che rende alla perfezione l’ampia gamma di sentimenti che caratterizza il personaggio di Shigeko: l’orrore e lo spavento al ritorno del marito più che mutilato, l’accettazione rassegnata del proprio ruolo familiare e sociale, la maturazione del proposito di vendetta, il pentimento, la follia e la quiete finale, una volta liberatasi, per sempre, del marito – padrone. [Giampiero Chieppa]