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Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

Oretachi no sekai (This World of Ours)


                                                              La carica dei 101                                                           

I migliori film del cinema giapponese dal 2000 a oggi scelti dalla redazione di Sonatine
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Oretachi no sekai (俺たちの世界, This World of Ours). Regia, soggetto, sceneggiatura, fotografie e montaggio: Nakajima Ryō. Assistente alla regia: Matsushita Yohei. Tecnico del suono: Miyata Mutsuko. Musica: Ohno Kyoji. Interpreti e personaggi: Okutsu Satoshi (Ryō), Taniguchi Yoshiko (Hiroki), Hata Arisa (Ami), Murakami Ren, Akaho Shinmon, Kasyu Natsu, Ogawa Taketomo. Produzione: Onomichi Koji, Nagase Taku per Peija Films. Durata: 94′. Anno di produzione: 2007. Uscita nelle sale giapponesi: 21 novembre 2009.
Link: Sito ufficiale (in inglese)

PIA Film Festival 2007: Special Jury Prize, Technical Achievement Award, Best Entertainment Award. Vancouver Film Festival 2007: Dragon and Tiger Awards. New York Asian Film Festival 2008: Best Debut Feature Award. Raindance Film Festival 2008: Nomination per Best Debut Feature.
International Film Festival Rotterdam 2008. Nippon Connection 2008. San Francisco Independent Film Festival 2008. Mexico City International Contemporary Film Festival. Bradford International Film Festival. Japan Film Festival Los Angeles. Barcelona Festival Àsia.
Sullo sfondo di una Tōkyō fredda e indifferente, si intrecciano le vicende di tre ragazzi. Ryō, un liceale vittima di bullismo da parte del suo insegnante Iwayama, è solito vendicarsi torturando Mitari, suo coetaneo più debole e impacciato. Un giorno, incoraggiato dalla loro compagna Ami, Mitari tenta invano di accoltellare il suo persecutore, il quale rimane illeso ma profondamente scosso dall’accaduto. Rientrato a casa, i genitori non sono in grado di comprenderne il disagio, lasciando che il figlio si chiuda ulteriormente in se stesso. Hiroki, laureato alla ricerca di un lavoro che non riesce a trovare, a seguito di un festino a base di droga e alcolici, prende parte, insieme ad un gruppo di violenti coetanei, ad uno stupro di gruppo. Ami, studentessa a cui Hiroki da ripetizioni, è anch’ella delusa dalla propria vita monotona e priva di significato, al punto di contemplare ogni giorno il suicidio. Costretto a frequentare la scuola e costantemente vittima delle angherie di Iwayama, Ryō è incapace di instaurare un dialogo con il prossimo e, snervato dalle premure della madre, decide di fabbricare una bomba artigianale. Nel frattempo, Hiroki tenta con i suoi compagni di eliminare le tracce di quanto accaduto, accusandoli di essere gli unici responsabili del crimine per cui sono ora tutti ricercati. Identificato e braccato dalla polizia, Hiroki si rende conto che non vi sarà più alcun modo di integrarsi all’interno del sistema, scoprendo che anche il confronto con il più maturo cugino, da poco rientrato in città, non gli è di alcun aiuto. Il giorno successivo, Ryō mostra ad Ami l’ordigno, provocandole entusiasmo e stupore. Insieme sulla metropolitana, la coppia scopre Iwayama nell’atto di filmare con una videocamera sotto la gonna di ignare passeggere. Smascherato e messo alle strette, l’uomo reagisce con violenza e lo studente, a seguito di un’ennesima umiliazione, lo pugnala mortalmente. Divenuto inaspettatamente un assassino, il giovane cerca invano un supporto morale in Ami, la quale però lo respinge aumentandone la mortificazione. Rimasto solo e affranto, Ryō decide di immolarsi nell’atto terroristico che da tempo si è prefissato. Angosciato dal senso di colpa e senza una via di fuga, Hiroki, vorrebbe consegnarsi alla polizia, ma viene raggiunto dal compare che l’ha coinvolto nella violenza, ora costretto a vivere come uno straccione. Il ragazzo si lascia convincere e desiste dal consegnarsi alla giustizia, perseguendo il folle ideale dell’amico che lo inebria vaneggiando di future rivolte con le quali cambiare il mondo. In lontananza, Ami osserva l’esplodere di un edificio, mentre alle spalle di Hiroki e dell’amico una colonna di denso fumo nero s’innalza verso il cielo.
Rinchiuso nella sua stanza, Nakajima Ryō aveva soltanto diciannove anni quando iniziò a scrivere il soggetto di This world of ours. All’epoca, il futuro regista trascorreva le sue giornate come un hikikomori (individui volontariamente segregatisi in solitudine) evitando qualunque contatto con il mondo esterno. Appartato, Nakajima osservava ciò che accadeva al di là della sua prigionia con sguardo partecipativo, valutando che cosa stesse cambiando all’interno di quella realtà intrisa di sofferenza di cui faceva indirettamente parte in prima persona. Opera fortemente autobiografica alla quale l’autore si dedicò per quattro anni, prima di presentarla al Pia Film Festival del 2007 e ricevere, tra gli altri, il Premio speciale della Giuria, This world of oursracchiude gli stimoli di grandi registi che hanno affrontato le problematiche adolescenziali in diverse occasioni, da Iwai Shinji a Shiota Akihiko, da Sono Sion a Toshiaki Toyoda. Con una camera a mano che insegue da vicino le traversie dei suoi protagonisti, avvinghiandosi ai loro corpi e ai loro volti, sovente ritratti con forti angolazioni dal basso ed affiancati da un profilmico urbano che sovrasta gravoso, il film di Nakajima è uno spaccato che dipinge con struggente lucidità la contemporanea disillusione giovanile (nei confronti di una società che non è in grado di comprenderli e vorrebbe esclusivamente assimilarli al suo interno omologandoli), la cui unica possibilità di far sentire la propria voce è l’esternazione di una ribellione autodistruttiva. Componenti quali la disaffezione e il distacco da qualunque forma di benessere dell’esistenza, la noia, il senso di impotenza e l’assenza di cambiamento (economico, sociale e personale) divengono promotori di un malessere che affligge l’universo giovanile nella sua interezza, diramandosi nelle pieghe di una società che si scopre di per sé corrotta e irrecuperabile.
Ambigua ed evanescente, Ami unisce le vicende di Ryō e Hiroki, figure maschili che, assieme al trentenne cugino dello studente universitario, completano una disamina generazionale sul giovane uomo giapponese e il suo traumatico inserimento nel contesto sociale contemporaneo. Vessato da un crudele insegnante e soffocato dall’inadeguatezza, nei riguardi di una madre che lo vorrebbe diverso e di un ambiente scolastico che lo trasforma in oppressore (avvezzo ad un bullismo altrettanto spietato e gratuito), Ryō non trova altra via che quella della violenza per esprimere se stesso e il suo dolore. Hiroki è un ragazzo reduce da un’adolescenza burrascosa, ora costernato per la mancanza di un impiego e la sua incapacità di integrarsi con il mondo adulto del quale è divenuto parte, sentendosi in debito con i propri genitori e detestandosi, nonostante i titoli di studio conseguiti, per essere un continuo fallimento. Avvilito da un perenne senso di frustrazione, Hiroki diviene vittima e al contempo carnefice in una spirale di degrado e soprusi fomentata dal suo gruppo di balordi coetanei. Decontestualizzando le vili ed eccentriche gesta dei protagonisti di Arancia Meccanica (un omaggio a Kubrick che si riscontra anche nelle scelte dei brani di musica classica che rincorrono nel corso del film, da Beethoven a Rossini), Nakajima tratteggia una cruda e sofferta sequenza di stupro in cui la volontà di allontanamento e indipendenza del singolo si annullano a favore dell’esigenza imperante del gruppo che richiede appartenenza e uguaglianza di tutti i suoi membri. Riluttante, Hiroki si piega al gesto condannando la propria esistenza, a favore di una fratellanza che lo trasforma in reietto, ormai definitivamente distante da qualunque vano sacrificio di riscatto. Dove Ryō è il motto ribelle, Hiroki sembra rappresentare l’insuccesso costante nell’applicarsi per una posizione che, nonostante la reticenza, si sente in dovere di ottenere. Combattuto dal suo desiderio di dare vita ad una rivoluzione (e rifiutare l’impellenza di un adeguamento ai canoni della società), il ragazzo ha di fronte a sé un reale che lo costringe a schierarsi, proponendogli alternative (l’adesione al suo gruppo di sbandati o la dedizione ad un’occupazione che finirebbe soltanto con il logorarlo) in entrambi i casi contrastanti con i suoi principi e ambizioni. Ryō tenta di combattere, di estraniarsi dal dolore, ma finisce con il solo distruggere gli altri e se stesso; Hiroki vorrebbe integrarsi, mantenendosi fedele ai suoi ideali, ma non vi riesce e dopo il sopruso cerca di fuggire per poi pentirsi e crucciarsi di una condizione dalla quale non avrà modo di esimersi.
Argomentando con coraggio temi forti e scomodi come l’auto mutilazione, il bullismo, le sevizie e la violenza carnale, Nakajima inscena un universo adolescenziale destinato a scontrarsi fatalmente con un reale dal quale potrà ricevere soltanto umiliazioni e insoddisfazioni. Da un’esposizione cupa e pessimista affiorano in superficie le peculiarità di un contesto sociale disagiato, indifferente, che piega l’individuo – attraverso ferree dinamiche di gruppi e gerarchie – e lo sottomette con disprezzo, costringendolo a sentirsi inadeguato e inadempiente. La transitorietà e l’incertezza del domani divengono un’ansia condivisa, un fattore imprescindibile che attanaglia tutti, indipendentemente dall’età. L’autore non mostra figure vincenti, ma solo uomini che hanno accettato la situazione, trovando in essa alternative non soddisfacenti ma di mero compromesso (il cugino di Hiroki, senza casa e famiglia, squattrinato, si aggrappa al primo lavoro disponibile per sbarcare il lunario in nome della libertà e dell’indipendenza della sua persona) o di sfruttamento dell’autorità acquisita (Iwayama, il personaggio più brutale e spregevole, autoproclamatosi frutto di un sistema incancrenito). In questa metropoli priva di affetti, i sentimenti non trovano spazio di rappresentazione e gli intenti di sostenere il prossimo bisognoso falliscono miseramente, assorbiti all’interno di un avvicendarsi narrativo in cui vige mancanza di linearità – non esiste un qui e un’ora – ed ogni accadimento risulta impercettibilmente interconnesso attraverso il collante invisibile del dolore. Una situazione ritratta dalla regia attraverso una costante condizione di fallace equilibrio, come se nel seguire le azioni dei protagonisti cercasse una scenografia prossima a ribaltarsi su se stessa, sensazione accentuata da una frequente inclinazione del piano, in particolare nel campo lungo, ponendo all’orizzonte una diagonale che sfiora gli angoli opposti dell’inquadratura. Un contesto soffocante che nemmeno lo sguardo dei protagonisti, spingendosi oltre i margini del piano e rimanendo spesso sospeso, riesce a oltrepassare e in cui Nakajima, con forte provocazione, prospetta l’atto terroristico come unica via di redenzione e possibilità di dichiarare la propria presenza. Esasperato, l’autore guarda all’attentato – indiscriminato e ai danni della collettività – con euforia e speranza, per intervenire sulle dinamiche che regolano la società, influenzando scelte economiche e politiche in funzione di un’utopica mutazione dell’intero Paese – non a caso, l’obiettivo di Ryō è il Palazzo del Governo Metropolitano di Tokyo, centro nevralgico delle decisioni economiche e amministrative della capitale. Indipendente, rivoluzionaria, destabilizzante, l’opera prima di Nakajima non è una minaccia ma un’invocazione d’aiuto, un tentativo estremo di denunciare gli orrori del reale ed esorcizzarli, dare spazio all’esigenza di cambiamento che deve coinvolgere le nuove generazioni, conservando oggi una portata tristemente attuale.[Luca Calderini]
   
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