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Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

Ai ga tomaranai (愛がとまらない, Don’t Dare to Stop Love)

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Ai ga tomaranai (愛がとまらない, Don’t Dare to Stop Love). Regia, sceneggiatura e montaggio: Oguchi Yōko. Fotografia (colore e bianco e nero): Suzuki Eiji. Musica: Inner Science. Interpreti: Fujishima Kazumi, Hatori Yoshiro, Abe Fumiko. Produzione: Oguchi Yōko, Suzuki Akihiro. Anteprima mondiale: 30 settembre 2012, Raindance Film Festival, Londra. Durata: 54′.
 
Presentato al Raindance Film Festival e poi all’International Film Festival Rotterdam, dove è stato abbinato a Chiri della Kawase in un programma dal titolo “Ai Is Japanese for Love” dedicato alle tematiche dell’amore e della famiglia viste da uno sguardo femminile.
Un mediometraggio girato in 8mm, estremamente sgranato, con immagini a tratti fuori fuoco, con un’estetica quindi ostentatamente amatoriale che prevede anche un audio molto disturbato dai rumori di fondo, spesso fastidiosi frastuoni come quelli che sembrano provenire da cantieri e demolizioni, e da un continuo ronzio, come se fosse registrato il brusio stesso della cinepresa, che denuncia così la sua presenza e il suo funzionamento. Una definizione dell’immagine che fa il paio con quelle televisive delle vecchie serie tv di samurai cui i protagonisti assistono più volte, e che vengono definite proprio da loro come nebulose.
La regista si porta dietro il suo bagaglio di cinema sperimentale per giungere, per la prima volta nella sua carriera, a un’opera dove è abbozzata una narrazione. È la storia di una donna la cui vita è in scadenza, divorata da un tumore incurabile. Ha già espresso le sue volontà finali sotto forma di una poesia tanka, in cui dispone che le sue ceneri siano disperse nel mare dei nativi Ainu. Una donna sulla quarantina, ma estremamente giovanile, tanto che si stenta a credere che abbia una figlia già liceale. E con quest’ultima mantiene un rapporto aperto, amichevole, tale da non generare imbarazzo quando si presenta a lei e all’amica in atteggiamenti intimi con il suo nuovo compagno. Un matrimonio fallito alle spalle, per aver troncato, di sua iniziativa, con un marito manesco che la picchiava. Alla fine si insinua il dubbio che la malattia della donna sia solo il frutto di un suo stato psicopatologico, proprio quando il suo fidanzato si era convinto a togliersi la vita per accompagnarla nella morte. E anche quest’ultimo si rivelerà violento, proprio come l’ex marito.
Il film comincia con un’immagine vertiginosa di un paesaggio di campi verdi ripresi dall’alto, con un punto di vista in movimento, una soggettiva presumibilmente dalla cabina di una funivia. Un’immagine che ricorrerà ancora, a metà film e alla fine, con i campi però squarciati dalla voragine di una gigantesca cava. Subito dopo questa prima scena la protagonista, in una sequenza in bianco e nero, è intenta a sbucciar patate. Poi il colore ritorna con dei ciliegi in fiore sotto i quali passeggiano la figlia e l’amica nella tipica blusa da liceale giapponese. Lo stile sperimentale della regista è mantenuto e solo dopo un po’ di tempo si innesca la narrazione, con la figlia che racconta all’amica che alla madre non rimane molto da vivere. Narrazione sempre inframmezzata da immagini di paesaggi, ciminiere in bianco e nero, treni, grovigli di cavi elettrici e tralicci. Visioni che riflettono lo stato d’animo dei personaggi, come quando la donna e il compagno percorrono un paesaggio estremo, ventoso, tra i pennacchi, curvi e piegati dalla neve che li ricopre, della vegetazione erbacea.
Un film al femminile, femminista, dove la donna è il fulcro, incentrato sulle due esistenze, indipendenti, quella della madre e quella della figlia. Quando il compagno vede quest’ultima per la prima volta si stupisce che sia così grande. E la genitrice risponde «Ricordo di averle dato la nascita, ma è come se sia arrivata e cresciuta da sola, senza chiedermelo». Poco importa se la malattia della donna sia vera o mentale, se si sia presa gioco o meno dell’uomo. In ogni caso è lei, nella sua superiorità, a condurre il gioco. Una donna che rimane giovanile, nonostante l’età e la malattia, che può mettersi a suonare la chitarra. Una persona che rincorre il diritto a una femminilità e alla salute, o la serena rassegnazione per la sua mancanza. Una dignità di donna desiderabile che spesso gli uomini negano alle loro compagne, perché non sopportano di avere accanto una persona attiva, viva, bella.
La Oguchi costruisce il film con un andirivieni continuo di toni, con una polifonia di stili, dalla ricerca dell’immagine imperfetta e sporca ai momenti di lirismo («In questo mondo l’amore è tutto. Non osare fermare l’amore.»), mantenendo sempre la narrazione a un livello leggero e scanzonato, nonostante la pesantezza del tema trattato, la malattia terminale.[Giampiero Raganelli]
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