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SONATINE CLASSICS

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Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

Osoi Hito (おそいひと、Late Bloomer)

I migliori film del cinema giapponese dal 2000 a oggi scelti dalla redazione di Sonatine

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Osoi hito (おそいひと、Late Bloomer). Regia e soggetto: Shibata Gō. Sceneggiatura: Naka Satoshi. Fotografia: Takakura Masaaki, Takeuchi Atsushi.Montaggio: Ichikawa Keita, Kumakiri Kazuyoshi, Shibata Gō, Suzuki Keisuke. Tecnico del suono: Ueno Takashi. Musiche: World’s End Girlfriend. Interpreti e personaggi: Masakiyo Sumida (Masakiyo Sumida), Torii Mari (Nobuko), Hotta Naozō (Take), Fukunaga Toshihisa (Fukunaga), Arita Ariko (Oba-chan). Produzione:Shima Toshiki per Shima Films. Distribuzione: Shima Films e Tidepoint Pictures per la versione USA distribuita ai festival e in DVD. Durata: 83′. Uscita nelle sale giapponesi: 1 dicembre 2007.

Festival: Tokyo FILMeX, Giappone 2004, International Film Festival Rotterdam, Olanda 2005, Philadelphia International Film Festival, Philadelphia 2005, Austin Fantastic Fest, Austin 2008.
Affetto da una forma aggravata di distrofia muscolare che gli impedisce di muoversi liberamente, di esprimersi verbalmente e di essere indipendente nelle necessità di ogni giorno, Sumida trascorre le sue giornate in casa, spostandosi occasionalmente all’esterno a bordo di una carrozzella elettrica. Data la sua indigente condizione, l’uomo riceve l’aiuto di un’assistente sociale ed è visitato ogni giorno da Take, il leader di una band hardcore che si prende fraternamente cura della sua persona, coinvolgendolo all’interno del proprio gruppo di amici. Nonostante la presenza di Take rappresenti un sicuro supporto, Sumida si sente intimamente solo, fino a quando nella sua vita sopraggiunge Nobuko, una giovane laureanda. Immediatamente attratto dalla giovane che gli si rivolge con atteggiamento premuroso e amichevole, Sumida matura un forte senso di frustrazione, interpretando con rabbia e timore il progressivo, seppur velato e platonico, avvicinamento tra quest’ultima e Take. Standogli accanto, Nobuko vede accentuarsi in Sumida un’allarmante propensione all’alcolismo e una crescente ostilità nei suoi confronti, al punto di essere minacciata di morte. Atterrita, Nobuko chiede all’amica Aya di spiare le azioni del suo assistito con la loro videocamera; la ragazza acconsente ma viene subitaneamente scoperta. Nel frattempo, ormai incapace di controllarsi, Sumida avvelena Take, lasciandolo affogare all’interno della sua vasca da bagno e facendo passare l’accaduto come un tragico incidente. Una sera, mentre è in compagnia dei suoi amici, Nobuko viene contattata da Sumida, il quale le chiede apertamente di avere un rapporto sessuale con lui. Sconcertata e amareggiata, la giovane si reca dal disabile e, disgustata, lo rimprovera duramente. Dopo la sfuriata, Nobuko decide di lasciare il suo impiego e recarsi ad Okinawa ed Aya, sebbene indispettita per l’improvvisa partenza dell’amica, continua ad osservare Sumida. Quest’ultimo, vedendosi definitivamente solo e rifiutato dall’amata, crolla completamente, innescando una terribile follia omicida.
    
In un’opera che non trova collocazione all’interno dei generi e che spazia dal dramma allo sperimentalismo venato d’orrore, Shibata invita il suo spettatore a riflettere sull’ipocrisia di cui sembra essere investito l’individuo comune nel relazionarsi con il “diverso”, colui che per fattori non appartenenti alla propria volontà soffre di una condizione disagiata che lo rende dipendente dal prossimo, generando in quest’ultimo un atteggiamento di compatimento repulsivo. Sumida non nasce malvagio, alcolizzato e pervertito, ma sembra irrimediabilmente destinato a diventarlo a causa della mancanza di un reale confronto con l’altro, trovando un dialogo esclusivamente con chi soffre la sua stessa condizione, come accade con l’amico e mentore (anch’egli infermo e malato) che è solito visitare per chiedere consiglio. Enigmatico e apparentemente apatico, Sumida assume la valenza di una superficie riflettente, reagendo a ciò che gli accade con un silenzio raggelante – rotto soltanto dalla voce atona e metallica del suo ripetitore vocale –, sentendosi sostanzialmente distante dalla vita e dalla realtà delle persone che per breve tempo lo circondano.
Il suo accoramento si manifesta in segmenti che lo vedono appartato nella sua angusta abitazione allo stesso modo che in spazi aperti dove, a bordo della sua carrozzella elettrica, percorre il margine di un canale, un marciapiede o si appresta ad attraversare la via del ritorno verso casa, raggiunto e oltrepassato da un gruppetto di gridanti bimbi in corsa. In questo microuniverso di necessità e struggente segregazione, la richiesta di aiuto del reietto rimane inespressa, generando un dolore sordo che sembra investire lo spettatore ma non i personaggi che gli si pongono accanto. Solo Take si differenzia dagli altri, sebbene la sua sincerità e la sua devozione non mitigheranno l’odio prossimo a coinvolgerlo: «Dietro quel sorriso digrignante, non si sa mai cosa gli passi per la testa» gli confida perplesso un amico, prima che il rocker finisca inaspettatamente all’altro mondo.
Con grande attenzione al potere dello sguardo che conferisce significato all’intimità dei personaggi, la cui psiche preme oltre i margini del quadro (del diverso chiuso in se stesso, come di chi gli si pone accanto che tenta di coglierne i pensieri), Shibata edifica una triangolazione sentimentale destinata a sfociare inevitabilmente in tragedia. Eliminato il rivale Take – la cui robusta fisicità è ampiamente delineata durante i concerti –, Sumida comprende suo malgrado che non potrà ugualmente avvicinare la ragazza di cui si è invaghito. È l’inizio del declino con il quale Shibata impone la distanza incolmabile che separa il disabile dalla giovane: dopo aver guardato insieme un video amatoriale di lei con le amiche, Nobuko ha un motto di indulgenza e lui puntualmente la rimprovera attraverso un’atona promessa di morte. Duramente respinto dal proprio oggetto del desiderio, a Sumida (personificando con aspra ironia il late bloomer del titolo, in quanto individuo che raggiunge solo in età avanzata la sua vocazione) non rimane che imbarcarsi in un viaggio di sofferenza dove dal rifiuto nasce il bisogno di reprimere e di uccidere. Shibata descrive un’inversa discesa agli inferi, dove la vittima – della quale l’autore cerca di raccontare il dolore e invita all’identificazione, senza giustificarne le scelte – è quella che dovrà reagire attraverso la violenza, ribellandosi ad una umanità che ha compassione ma che non può comprendere, considerando Sumida diverso, scevro da quegli istinti e desideri che appartengono al lato deplorevole di ogni uomo. Ponendosi accanto al suo personaggio e propendendo per un’ambiguità irrisolta (non sappiamo se il volgere al male sia sintomo dell’alcolismo, di un peggioramento patologico o un risentimento non più controllabile), l’autore questiona la nostra commiserazione e la nostra volontà di proteggerci di fronte all’abietto, affetto da istinti e pulsioni che investono il suo corpo deforme, metafora di un sentimento inammissibile che risale con violenza in superficie.
Spingendo lo spettatore ad una scomoda presa di coscienza, la forza comunicativa del film scaturisce da una presa documentarista (in cui la mediazione dell’occhio della videocamera amatoriale assume le vesti di un filtro che testimonia e distanzia) che affonda in una percezione di immagine piegata e perversa (dove l’intervento dell’autore è marcato), divenendo soggettiva della psiche del protagonista e della deviante percezione del mondo che lo circonda.
Tale impiego di stili (che l’incedere narrativo sovrappone e giustappone deliberatamente, inficiando distanze spaziali e negando spesso la continuità temporale con frequenti passaggi in ellissi) è a sua volta legato ad un’immagine in digitale desaturata e non di rado assai cupa, impregnata di effetti speciali che gonfiano, dilatano e dissolvono quadri e movimenti l’uno dentro l’altro, generando un’ipertrofia visiva a dimostrazione di un caos che aggredisce e si diffonde sul mondo esterno, enfatizzandone a dismisura la dimensione percettiva. È allora che la camera si avvicina con insistenza al suo soggetto (scavando il volto di Sumida, insistendo sul suo sguardo torvo, le sue membra contorte), lo scruta, storpia il reale dell’ambiente e lo deforma, investendolo di sonorità elettroniche incongrue e irrazionali, facendosi portatrice di un allucinazione degradante, prossima a concretizzarsi.
Late bloomer si trasforma così in un’esperienza sensoriale sconvolgente, in cui lo sguardo dello spettatore, privo di difese e reso soggettivo, viene posto in relazione diretta con fantasie vendicative, stralci d’allucinazione, frammenti del passato e un soffocante sentimento di frustrazione e impotenza ai limiti della sostenibilità che, seconda la tesi dell’autore, non ha altra via se non nell’esplodere della violenza. Nel descrivere questo processo di trasformazione, la sintassi del film è avvicinabile a quella di Tetsuo(1989) di Tsukamoto Shin’ya (talvolta omaggiato direttamente, come nella sequenza della preparazione fisica di Sumida, prima dell’inizio della carneficina), sebbene Shibata, raccontando la fisicità e il tormento, non rappresenti il mutamento diretto delle carni. La commistione tra materia organica e inorganica traspare dalla violenza folgorante delle immagini (principalmente nell’estensione fisica della carrozzella elettrica e nell’apparato sonoro che permette a Sumida di parlare) mentre il frutto della degenerazione rimane introspettivo, coinvolgendo l’istintività dell’ermetico protagonista, ormai incapace di contenere il suo risentimento. Quando finalmente Sumida lascia esplodere la sua rabbia, Shibata insiste sulle gesta del suo protagonista mutando l’omicidio in catarsi, spettacolarizzando la soddisfazione del bisogno attraverso il compimento dell’atto estremo in quanto veemenza del desiderio.
Indagando l’orrore della commiserazione, Shibata rifiuta la compassione diversificante (fonte di certezza e comoda rassicurazione) a favore di un rinnovato dischiudersi del diverso come figura che cerca la vicinanza e il contatto con il suo prossimo senza l’imposizione di quelle barriere invisibili che lo mantengono distante, rendendolo non conforme e non idoneo ad interagire con i suoi simili. Sebbene la società giapponese sia attenta alla condizione del diversamente abile e si sia adoperata per incontrare i suoi bisogni (tramite, per esempio, l’adeguamento dei servizi pubblici e le scuole di formazione dedicate) l’autore sembra voler ricordare (in modo drammatico, quand’anche grottesco e visivamente scioccante) che le lacune più gravi e socialmente denigranti rimangono l’isolamento e la mancanza di interazione umana, le stesse che alterano Sumida in carnefice senza elevarlo dalla condizione di vittima. [Luca Calderini]
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