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Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

Jigoku de naze warui (地獄でなぜ悪い Why Don’t You Play in Hell?)

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Jigoku de naze warui (地獄でなぜ悪い Why Don’t You Play in Hell?). Regia, sceneggiatura, musica: Sono Sion. Fotografia: Yamamoto Hideo. Montaggio: Itō Jun’ichi. Interpreti e personaggi: Kunimura Jun (Muto), Tsutsumi Shin’ichi (Ikegami), Hasegawa Hiroki (Hirata), Nikaido Fumi (Michiko), Tomochika (Shizue), Hoshiro Gen (Kōji) Produzione: Matsuno Takuyuki, Moriyama Atsushi per Bitters End inc., Gansis, King Record Co. Durata: 126’. Anteprima mondiale: Festival di Venezia 29 agosto 2013. Uscita nelle sale giapponesi: 28 settembre 2013. Girato in DCP.
Links: Sito ufficiale (in giapponese) – TrailerGiampiero Raganelli (Asia Express) – Deborah Young (The Hollywood Reporter) – Justin Chang (Variety)
Punteggio ★★★★

Sono Sion è ormai uno degli autori giapponesi più corteggiati dai grandi festival internazionali. Lo conferma il suo ultimo film, Why Don’t You Play in Hell, presentato in anteprima mondiale a Venezia, e poi visto, tra gli altri, a Toronto, Busan, Austin, Rio de Janeiro, Londra e Hong Kong. Dopo la parentesi drammatica di The Land of Hope (“mezzo passo falso?”) e lo scatenato drama televisivo All Esper Dayo!, Sono ritorna a quel cinema postmoderno e flamboyant che gli è più congegnale, fatto di attrazioni, di “geniali” invenzioni audiovisive, di personaggi sgangherati e “basso mimetici”, di situazioni al limite dell’assurdo (e spesso anche oltre), di “oltrepassamento” e mescolamento dei generi (qui jidaigeki, yakuza, action, melodramma e comico), di esasperato citazionismo e di ludica violenza. La storia – che è quasi impossibile riassumere perché “sfugge da tutte le parti” – è quella di un film nel film, in cui un gruppo di volenterosi giovani cineasti – al loro “esordio” – si ritrova a dover filmare un “vero” combattimento all’ultimo sangue fra due bande yakuza (una delle quali, per volere del suo boss, indossa kimono alla maniera dei samurai).
Il carattere postmoderno e attrazionale del film è denunciato sin dalla sua sequenza d’apertura, costruita sull’accattivante spot pubblicitario di una bambina (Michiko) – destinata a diventare dieci anni dopo una delle protagoniste della storia – che danza e canta mentre fa la réclame di un dentifricio. L’esibizione colpirà più di un cuore e lascerà un segno nel destino di diversi personaggi. Fra i tanti altri momenti squisitamente attrazionali del film possiamo citare la scena in cui la stessa Michiko, rientrata a casa poco dopo il tentativo di una banda yakuza di assassinarne il padre, scivola su un pavimento trasformatosi – come in un film di Miike – in un vero e proprio lago di sangue; quello – esilarante – in cui una madre di Michiko, con tanto di grembiule, insegue coltello alla mano lo yakuza assassino; quello in cui si vede – dall’interno di una serie di appartamenti in cui sta davvero accadendo di tutto – un cartellone pubblicitario precipitare da un tetto verso la strada, rischiando di colpire una madre innocente e la sua bambina; o ancora – ma l’elenco sarebbe infinito – gli yakuza che, colpiti durante il pirotecnico combattimento finale, spruzzano dai loro corpi un sangue multicolore che disegna sullo schermo una serie di effetti arcobaleno.
Postmoderna è poi anche la ludica dimensione metacinematografica di Why Don’t You Play in Hell? Come si è detto, il soggetto verte sulla realizzazione di un film, quello che un boss yakuza vuole girare, con la figlia Michiko protagonista, per donarlo alla moglie in occasione della sua uscita dal carcere. Il film, senza sceneggiatura, dovrà riprendere lo scontro fra due bande. A farlo sarà il gruppo dei «Fuck Bombers» guidato dal “regista” Hirata cui l’unica dote, che mai davvero gli manca, è l’assoluto entusiasmo. Già all’inizio del film si vedono Hirata e i suoi filmare per strada una zuffa fra due gruppi di studenti. La scena è l’occasione per un doveroso omaggio al grande re-inventore del cinema yakuza, Fukasaku Kinji, che passa attraverso la riproduzione dell’inconfondibile leit motiv della colonna sonora firmata da Tsushima Toshiaki della celebre serie Jingi naki tatakai (Combattimenti senza codice d’onore) – per ascoltarla, accompagnata da divertenti immagini feline, andate qui: http://www.youtube.com/watch?v=vJ2tD5z-3NY -. Quando Hirata e i suoi entrano in un vecchio cinema, di cui più avanti si vedrà la chiusura, e un anziano proiezionista li accoglie chiedendo loro di realizzare un grande film, sullo schermo della sala passano le immagini di Heya, il lavoro di Sono del 1992. Il giovane studente, che i «Fuck Bombers» “scritturano” nel ruolo di protagonista come futuro nuovo Bruce Lee, indossa sugli improvvisati set la famosa tuta gialla a strisce nere (in un omaggio che oltre all’attore hongkongese richiama anche il tarantiniano Kill Bill). Mentre i giovani cineasti – dieci anni dopo l’incipit del film – guardano il trailer del loro “capolavoro” mai realizzato, Hirata deve spiegare a una giovane e ignara ragazza cosa fosse il 35mm. Venendo poi al lungo climax – che nella sua ”eccessiva” durata richiama la grande stagione del cinema popolare giapponese degli anni Cinquanta e Sessanta – si possono menzionare alcuni momenti davvero esilaranti: lo zelo con cui gli yakuza vanno a ricoprire i diversi ruoli necessari alla realizzazione di un film (da quello di scenografo a quello di tecnico delle luci); il boss yakuza Muto che si immagina nel ruolo di protagonista mentre avanza impavido con due pistole in mano come il Chow Yun-fat dei film di John Woo; l’attesa per il fatidico «Si gira!» che è nei fatti quella per un fulleriano «Si combatte!»; i due operatori dei «Fuck Bombers» che mentre muovono le loro cinecamere (l’uno a mano, l’altro con un carrello) interagiscono col combattimento sparando a loro volta a ripetizione; per arrivare al passaggio della morte dell’ “attore” emulo di Bruce Lee accompagnato da una serie di immagini “rievocative” e “celebrative” sulla sua vita di “star”.
Senza mai perdere in ritmo e coinvolgendo continuamente lo spettatore nel suo fuoco di fila di invenzioni, Why Don’t You Play in Hell è l’ennesima conferma del talento audiovisivo di Sono Sion. [Dario Tomasi]

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