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SONATINE CLASSICS

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Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

Chiisai ouchi

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Chiisai ouchi (小さいおうち, The Little House). Regia: Yamada Yōji. Soggetto: dal romanzo di Nakajima Kyōko. Sceneggiatura: Yamada Yōji, Hiramatsu Emiko. Fotografia: Chikamori Masashi. Montaggio: Ishii Iwao. Musica: Joe Hisaishi. Interpreti: MatsuTakako, Kuroki Haru, Kataoka Takataro, Yoshioka Hidetaka, Tsumabuki Satoshi, Baisho CHieko, Nakajima Tomoko. Produttori: Fukazawa Hiroshi, Saitō Hiroyuki.
Durata: 136 minuti. Uscita nelle sale giapponesi: 25 gennaio 2014.
Link: Valentina D’Amico (movieplayer.it)
Takeshi trova i diari della defunta zia Taki, che non si era mai sposata. Prima della Seconda Guerra Mondiale, a Tokyo, in una piccola casa con il tetto triangolare rosso, Taki faceva la cameriera. La famiglia che viveva nella casa consisteva di tre membri: il marito, che lavorava in una azienda di giocattoli, la sua bellissima moglie Tokiko e il loro figlio di cinque anni Kyoichi. Un giorno, il marito assume Shoji, un giovane diplomato della scuola d’arte. Sia Taki che Tokiko sono affascinate dal talento artistico dell’uomo. Ma la guerra inizia a corrodere per poi distruggere ogni cosa, incluse le relazioni interpersonali all’interno delle casa …
Dopo Tōkyō kazoku (Tokyo Family) il suo rifacimento di Viaggio a Tokyo di Ozu Yasujirō, che non aveva convinto né il pubblico né la critica, anzi era stato giudicato il peggior film del 2013 da Eiga geijutsu, Yamada Yōji torna a raccontare il periodo che precede, attraversa e segue il secondo conflitto mondiale e le velleità di conquista del Giappone imperiale. Come aveva già fatto in Kaabee (Our Mother) nel 2008, Yamada struttura la storia su due piani temporali, in realtà tre, considerando che c’è il presente in cui Taki è appena deceduta ed un passato prossimo in cui vediamo l’anziana dialogare con il nipote, oltre al periodo remoto ricordato dalla stessa anziana attraverso i suoi ricordi e la scrittura delle sue memorie, tempo che occupa la maggior parte della narrazione.
Al contrario di quanto è stato scritto da molti critici, a noi il film è sembrato molto sottile e tutt’altro che banale, giocato naturalmente molto sugli stilemi del dramma familiare, e non potrebbe essere altrimenti, ricordiamoci che dopo tutto si tratta di un film della Shōchiku mirato ad un vasto pubblico, e che Yamada ha da sempre realizzato questo genere di lavori, melensi di certo per alcuni, ma assolutamente da non sottovalutare. L’interpretazione che è valsa il premio come miglior attrice alla Berlinale di quest’anno alla brava Kuroki Haru, ha sorpreso e scandalizzato molti, ma anche qui ci meravigliamo di tanto stupore, nel suo ricreare la timidezza ed un certo grado di innocenza di chi come la protagonista dall’estrema campagna di Yamagata si è recata nella capitale nei primi decenni del secolo scorso, c’è molta finezza e bravura, soprattutto nei silenzi e nell’espressività del corpo, per sottrazione però, per il modo cioè di essere invisibile pur restando presente. Il modo di stare seduta, quello di tirarsi indietro o di ascoltare eclissandosi sono davvero encomiabili. Se in un personaggio che sembra stia sempre all’ombra di tutto ciò che succede nella casa in quanto aiutante della famiglia e che nasconde i suoi sentimenti, riusciamo alla fine a captare il non detto e ad immaginare il tormento interiore, ebbene il merito è proprio dell’interpretazione della Kuroki. Che del resto trova una “partner” ideale in Matsu Takako e nel suo personaggio di Tokiko, che riesce a caratterizzare i tormenti interiori ma superficiali e da “primo mondo” di una moglie che, in fin dei conti, è una donna annoiata nella società benestante dell’epoca.
Le critiche piovute sul film che lo descrivono piatto, superficiale e falso in quanto non descrive la complessità del periodo, con la mobilitazione totale imperialista e gli attriti sociali presenti fra gli strati sociali, sono le stesse che il nipote Takeshi riversa sulla nonna quando la rimprovera che subito dopo il massacro di Nankino, riportato peraltro come semplice atto di conquista dai media dell’epoca, lei si preoccupi dei saldi nei negozi della capitale. Ma questa superficialità è proprio il taglio con il quale Yamada descrive e tratteggia quel tempo e le persone che lo hanno vissuto e se considerata con più ponderatezza questa superficialità diventa una critica ancora più crudele e tagliente, complica ancor di più le cose ed ha un riverbero quasi da oscuro presagio anche sulla situazione giapponese attuale.
Molto più interessante è per Yamada mettere in luce la tristezza e l’inutilità della vita che pervade il personaggio di Taki da anziana, con la scena del pianto verso la fine in cui fra i singhiozzi bisbiglia che non avrebbe dovuto vivere così a lungo. Una scena di una tristezza indicibile e che nella sua ambiguità ci dice anche dell’inevitabile frattura di incomunicabilità che ci separa da coloro che hanno vissuto direttamente il periodo bellico. Ciò che pervade segretamente tutto il lungometraggio fin dalle primissime scene, in cui si vede il camino del crematorio dopo il funerale dell’anziana, è un senso di perdita che non è solo quello relativo ad un familiare o ad una persona che si è amata, ma il senso di caducità e di irreparabile perdita che accompagna ogni morte. I vari oggetti, il quadro della casa dal tetto rosso a cui si riferisce il titolo, i diari e tutti gli oggetti che vengono messi negli scatoloni dopo il funerale sono memorie personali ma anche artefatti che portano in loro il segno di esperienze passate e di un mondo che non c’è più. Proprio per questo motivo gli ultimi trenta minuti dei film, con l’azione che torna al presente con Takeshi e la sua ragazza che rintracciano il vecchio Kyoichi, il bambino figlio di Tokiko di cui Taki si prendeva cura, è superfluo e melenso, quasi una spiegazione di tutto ciò che era stato accennato e lievemente pennellato durante il film. Ma anche questo e Yamada Yōji, prendere o lasciare. [Matteo Boscarol]

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