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Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

Natsu no owari (夏の終り, The End of Summer)

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Natsu no owari (夏の終り, The End of Summer). Regia: Kumakiri Kazuyoshi. Soggetto: dal romanzo di Setouchi Jakuchō. Sceneggiatura: Ujita Takashi. Fotografia: Kondō Ryūto. Personaggi e interpreti: Mitsushima Hikari (Aizawa Tomoko), Kobayashi Kaoru (Kosugi Shingo), Ayano Gō (Kinoshita Ryota). Prodotto da: Fujimoto Makoto, Koshikawa Michio, Hoshino Hideki. Durata: 114 minuti. Uscita in Giappone: 31 agosto 2013.
Link: Nicholas Vroman (a page of madness)
Punteggio ★★★★

Il film di Kumakiri Kazuyoshi è tratto dal noto romanzo dal titolo omonimo di Setouchi Jakuchō, basato in parte su esperienze vissute dalla stessa autrice – divenuta nel 1973 monaca buddhista – e pubblicato negli anni Sessanta.
La storia si concentra su di un triangolo amoroso. Tomoko intrattiene da ben otto anni una relazione con lo scrittore Shingo, che divide il proprio tempo tra l’amante e la famiglia. Lei non gli ha mai chiesto di lasciare la moglie e sembra aver accettato la situazione che si è venuta a creare tra loro. Improvvisamente però riappare dal passato Ryota, l’uomo che Tomoko aveva amato e che aveva già messo in crisi il suo precedente matrimonio. Il ritorno del ragazzo pone Tomoko nella condizione di mettere in discussione la propria relazione con lo scrittore.
“L’abitudine è più forte di qualsiasi legame o affetto”.
Fino alla (nuova) apparizione di Ryota nella vita di Tomoko, questa sembra essere la filosofia di vita della donna, che lei stessa afferma.
In effetti ci si chiede fin dall’inizio perché condivida la propria vita con Shingo. Non sembra che quest’ultimo la mantenga, posto che la vediamo in diverse occasioni intenta a creare e lavorare alle proprie creazioni su stoffa. Non pare neppure che li unisca una particolare intesa erotica. E allora perché accetta di continuare a vivere con un uomo che le offre una relazione a metà, che va e viene da casa sua, dividendosi con la propria famiglia “regolare”? Forse per la stessa ragione che lei stessa dichiara: l’abitudine è comoda, è confortante e diviene a poco a poco una gabbia dalla quale non si vuole più uscire.
Vi è peraltro un ulteriore aspetto da considerare: l’attrice scelta per il ruolo di Tomoko, la giovane e bellissima Mitsushima Hikari, seppur decisamente espressiva, non rispecchia appieno, come è stato giustamente sottolineato, l’eroina del romanzo, vale a dire una donna ormai vicina ai quarant’anni che si confronta anche con la presumibile diminuzione dell’interesse maschile nei suoi confronti.
La coppia comunque ha raggiunto una sorta di equilibrio, che l’arrivo di Ryota scuote fin nelle fondamenta. Il regista, dopo aver scelto di raccontare in maniera ellittica il momento in cui l’ex amante appare alla porta della casa in cui vivono Tomoko e Shingo, si sofferma con intensi primi piani, e tempi lunghi e sospesi, sull’effetto devastante del suo ritorno. Influenzato dai grandi maestri del cinema classico, come Ozu Yasujirō e Naruse Mikio, Kumakiri Kazuyoshi esordisce nel 1997 con l’horror splatter Kichiku, il quale, insieme ai seguenti Hole in the Sky del 2001 e Antenna nel 2003, affronta il tema del dolore, della violenza e sofferenza.
In Sketches of Kaitan City del 2010, si era soffermato sulle difficoltà della vita quotidiana di una comunità nel Nord del Giappone, utilizzando in alcune scene uno stile documentario; non così in quest’ultimo lavoro, nel quale ricostruisce al dettaglio l’ambiente del periodo Shōwa (1926 – 1989), ed utilizza flashback, integrando intense scene oniriche con quelle reali.
Stupendi i primi piani dedicati alla sua eroina, a tentare di catturarne lo sguardo, anche quando, come nel finale, in attesa di incontrare nuovamente Shingo, è rivolto oltre i confini dell’inquadratura, verso un possibile futuro. [Claudia Bertolè]

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