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SONATINE CLASSICS

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Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

Watashi no otoko ( 私の男, My Man)

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Watashi no otoko ( 私の男, My Man). Regista: Kumakiri Kazuyoshi. Soggetto: da un romanzo di Sakuraba Kazuki. Sceneggiatura: Ujita Takashi. Fotografia: Kondō Ryūto. Luci: Fujii Isamu. Musiche: Jim O’Rourke. Personaggi ed interpreti: Jungo (Asano Tadanobu), Hana (Nikaidō Fumi), Oshio (Fuji Tatsuya), Yoshiro (Kōra Kengo), Komachi (Kawai Aoba), la piccola Hana (Yamada Mochika). Produttori: Nagata Yoshihiro, Nishigaya Toshikazu. Produzione: Nikkatsu. Durata: 128 minuti. Uscita in Giappone: 14 giugno 2014. – Miglior film e miglior attore al Festival di Mosca 2014.
Link: Sito ufficialeClarence Tsui (Hollywood Reporter)

Hana è una bambina di dieci anni rimasta orfana dopo che un terremoto (accaduto veramente nel 1993) ed il conseguente tsunami ha spazzato via un piccolo paese in un’isola vicina ad Hokkaido, Okushiri. Portata nel campo dei rifugiati si incontra con Jungo un ventiseienne lontano parente che decide di adottarla come figlia.
La ragazza è ora una studentessa di scuole medie, estroversa ma con uno strano guizzo di pazzia che si riversa soprattutto contro Komachi, la partner di Jungo che lavora come commessa in una banca del luogo. Il rapporto fra Jungo e Hana infatti ha preso una piega insolita e pericolosa, molto di più di una relazione fra padre e figlia i due cominciano e sfiorarsi ed a toccarsi spesso con accenni di lussuria. La situazione degenera quando Hana diventa studentessa di scuola superiore ed il suo corpo e la sua persona decidono di volere di più dal “padre”, i due diventano ossessionati l’uno dall’altro. Dopo vari avvenimenti e scandali si trasferiscono a Tokyo ma mentre lei sembra crescere in una donna adulta e con normali aspirazioni, la vita di Jungo degenera.
Il lungometraggio, che è l’adattamento cinematografico di un romanzo di Sakuraba Kazuki, è caratterizzato nelle prime battute in una luce plumbea, naturalmente un riflesso delle caratteristiche geografiche del luogo, le zone settentrionali dell’Hokkaido, ma anche un’espressione del senso di disperazione dei protagonisti colpiti dalla tragedia dello tsunami. Il buio quasi totale e gli sprazzi che intravediamo di zone devastate sono rese nei primissimi minuti come una sorta di inferno espressionista, un tocco che seppur molto più contenuto e meno aggressivo nei colori ricorda certi momenti del cinema di Terayama Shūji o di Sono Sion con cui lo stesso Kumakiri ha spesso collaborato in passato. Per tutto il resto della durata, il film è immerso in una luce eterea e lattiginosa, lieve ma quasi da purgatorio, gli unici momenti in cui il colore si ravviva è quando è il sangue che rompe la patina biancastra, azzurrognola e monotona della pellicola.
In questo senso, soprattutto una scena, una delle più riuscite del film tanto per espressività che per il significato nel contesto generale, merita un approfondimento. La mattina in cucina Hana sta per andare a scuola, ma il bacetto di saluto del “padre” diventa qualcosa di più, la ragazza succhia il dito dell’uomo, un atto che ritorna in tutto il film, dal periodo in cui Hana è bambina fino a quando diventa più grande e diviene così un elemento che nella sua duplicità filiale/erotica lega ma anche crea uno scarto all’interno della storia. I due finiscono quindi per consumere l’atto sessuale quando all’improvviso delle gocce di sangue cominciano a colare sul dorso della mano di lei e poi una vera e propria pioggia rossa si riversa sui due all’interno della cucina. Una scena dura, rivoltante ma anche surreale che simbolicamente rimane aperta, il sangue della passione o dell’atto peccaminoso di cui i due sono protagonisti ma anche “finalmente” un sangue che li avvolge e dona loro quella complicità interiore e quella vicinanza che entrambi hanno perso o non hanno mai avuto nella loro vita.
Impressionante per eccellenza la performance di Nikaido Fumi che riesce ad interpretare alla perfezione i tormenti di Hana prima da studentessa di scuola media per poi accompagnare, sempre in modo molto ambiguo e mai univoco, il suo personaggio fino alla soglia dell’età adulta in una delle prestazioni più intense viste di recente nel cinema giapponese. Di pari passo avviene la trasformazione e la caduta nel fango di Jungo, anche se si tratta di un deterioramento che già si poteva intuire nelle prime scene. Asano Tadanobu riesce a creare un personaggio convincente, grazie ad una prestazione davvero degna di nota, finalmente all’altezza della fama dell’attore che dopo il trasferimento in America e forse anche a causa dell’età, non era più riuscito a creare o trovare personaggi memorabili come era successo all’inizio del suo percorso artistico.
Tutto il film si regge ed è impregnato dal rapporto fra i due. Kumakiri non indietreggia davanti a niente, non tanto nel mostrare, come nelle scene di sesso che pure ci sono, ma piuttosto per il suo sguardo è lucidamente spietato nel rivelarci con onestà la bellezza e finanche la purezza della relazione fra due anime ferite indelebilmente che cercano disperatamente una comunione di qualche tipo. C’è amore, ma è un amore che rompe i tabù e proprio per questo è quasi insopportabile e a tratti disgustoso, ma non perchè ci sia incesto, i due non sono padre e figlia anche se lontani parenti, ma piuttosto perchè coabitano nelle loro anime il sentimento filiale e quello passionale/amoroso, carnale. L’amore del padre verso la figlia e viceversa ed il desiderio che li attrae è lo stesso amore, è la stessa pulsione, è questo lo scandalo nei confronti dei quale Kumakiri non indietreggia, un sentimento tanto più nitido e tagliente quanto manca il legame di sangue diretto, non c’è il millenario paravento del tabù dietro cui nascondersi per lo spettatore. Il disgusto per l’atteggiamento di Jungo, la passione bambinesca di Hana, il sesso, i sorrisi, l’ossessione, le carezze e l’avvinghiarsi dei corpi, i baci della buonanotte e la passione più lasciva si fondono insieme e ci aggrediscono come poche opere d’arte sono state capaci di fare. Per questo approccio onesto, capace di andare fino in fondo ai sentimenti umani, Kumakiri è molto prossimo alla poetica del già citato Terayama.
Le note minimali ma dissonanti create dall’ex Sonic Youth Jim O’Rourke (sue le musiche di United Red Army di Wakamatsu Koji) per My Man si fondono col paesaggio e le toccanti e disturbanti immagini fotografate da Kondō Ryūto ed illuminate da Fujii Isamu. Il mare bianco di schiuma, le lastre di ghiacchio a perdita d’occhio sul mare di Okhotsk, le navi arruginite in attesa nel porto sprofondate nella neve, gli interni sciatti e per niente accoglienti, il cielo sempre tinto di azzurro morte e di un blu sempre una gradazione inferiore al sereno, il paesaggio costiero e cittadino uniforme, anomino e cullato dal bianco della neve e del ghiaccio.
Tutto il film è anche una riflessione sul luogo, sul significato della luce nordica e sul suo compenetrarsi con il carattere e gli avvenimenti delle persone che il territorio lo attraversano e lo abitano. Vista poi la posizione dell’Hokkaido nell’arcipelago nipponico, essa diviene un’esplorazione dei margini anche dal punto di vista cinematografico. Troppo spesso è Tokyo o l’area urbana giapponese a farla da padrone nella cinematografia giapponese e quando ci si rivolge alla campagna, è spesso per intenderla in senso bucolico e rivestirla quindi con quel significato di furusato che molta importanza ha nel sentire giapponese. I margini geografici e mentali scandagliati ed esplorati in My Man sono invece storia a sé, c’è il mare certo ma l’elemento acqueo pur nella sua bellezza è portatore di morte fin dalla prima scena, è una natura sublime ma spigolosa, uniforme che non respinge ma neanche accoglie. Indifferente.
Un’altra caratteristica che merita di essere almeno accennata è l’andamento imprevedibile, quasi sincopato e a salti di cui si compone il film, come del resto accade anche in altri lavori del regista originario di Hokkaido, come per esempio il recente Natsu no owari (The End of Summer, 2013). Scene e musiche che sembrano quelle finali ma che portano invece da tutt’altra parte, cerchi narrativi che credevamo chiusi ma che si riaprono improvvisamente, naturalismo che improvvisamente si apre in buchi espressionisti. In My Man c’è tutto ciò che caratterizza nel bene, per chi scrive, e nel male il modus filmandi di Kumakiri, senza dubbio uno degli autori più originali che operino nel Giappone contemporaneo. [Matteo Boscarol]

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