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Umoregi (埋もれ木, The Buried Forest) 2005


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Umoregi (埋もれ木, The Buried Forest). Regia: Oguri Kōhei. Sceneggiatura: Oguri Kōhei, Tsukasa Sasaki; Fotografia: Teranuma Norio; Luci: Tomiyama Meichō; Suono: Yano Masato; Scenografie: Takeuchi Etsuko; Montaggio: Ogawa Nobuo; Musiche: Arvo Pärt; Interpreti: Karen, Tosaka Hiromitsu, Asano Tanadobu, Sakata Akira, Ōkubo Taka, Sakamoto Sumiko, Tanaka Yūko; Produzione: Suzuki Yoshihiro per Phantom Film; Durata: 93’; Uscita nelle sale giapponesi: 25 giugno 2005.
Link: TrailerTom Mes (Midnighteye) – Jai Weiisberg (Variety) 
Punteggio ★★★★

La vita di una piccola comunità rurale ripresa a frammenti durante l’organizzazione di una sagra locale. Tra le numerose vicende che si intrecciano tra di loro: tre ragazze che si passano il testimone di un racconto surreale; un uomo che vuole far volare in cielo un’enorme giraffa gonfiabile; quella di un’anziana che si rifiuta di andare a stare in una casa di riposo; un gruppo di bambini che organizza un’escursione notturna nel bosco. L’intero villaggio sarà poi coinvolto nel ritrovamento di un’antica foresta pietrificata, sepolta sotto terra.
La produzione di Oguri Kōhei, pluripremiato cineasta attivo sin dai primissimi anni Ottanta con la sua opera d’esordio Doro no kawa (Il fiume di fango, passato in fascia notturna su Fuori Orario come quasi tutti i film di Oguri), rappresenta, per tempi e coerenza, quasi un’anomalia rispetto a un panorama cinematografico spesso caratterizzato da iperproduttività ed eclettismo: girato a quasi dieci anni di distanza da Nemuru otoko (L’uomo che dorme), Umoregi è appena il quinto film del regista e si pone, tanto sul versante tematico quanto su quello stilistico, in netta continuità con i titoli precedenti. In esso trova infatti conferma la predilezione dell’autore per le atmosfere placide di un Giappone rurale, animista e senza tempo, tratteggiato con delicato lirismo aperto a suggestioni fantastiche e portato in scena, splendidamente fotografato da Teranuma Norio, tramite uno scrupoloso (benché in alcun modo sterilmente calligrafico) lavoro di stilizzazione formale. Riprese statiche, recitazione priva d’enfasi, dialoghi prosciugati, composizione in chiave geometrica dei piani, una struttura fortemente antinarrativa e tutto ciò che il cinema giapponese può riprendere dalla sua più illustre e peculiare tradizione classica, di cui tuttavia Oguri si appropria in maniera personale e affatto pedissequa, senza disdegnare suggestioni postmoderne (si pensi alla contaminazione col linguaggio del manga, in apertura) e guizzi di umorismo surreale che contrappuntano le atmosfere solenni evocate dalle musiche di Arvo Pärt.
Il rapporto con l’universo naturale e con il divino di cui esso è intriso secondo la tradizione animista giapponese, richiamato con un senso di magia e stupore, è uno dei temi ricorrenti dell’opera. Nel corso del film viene continuamente fatto richiamo, tanto nei dialoghi quanto nelle immagini stesse, a elementi naturali che sembrano guidare il corso delle storie degli esseri umani (la foresta, l’acqua, il fuoco, il legno, il magma, i minerali, l’aria, la terra, il sole, le nuvole, le forze magnetiche, ma anche la spinta vitale insita alla morte stessa, capace di generare nuove realtà), nonché a un bestiario, composto da cammelli, giraffe, balene, gechi luminescenti, uccelli con gli stivali e uova giganti, così bizzarro da confluire armoniosamente in quello degli spiriti che appaiono misteriosamente di notte, nel cuore della foresta. L’altro grande tema che viene sviluppato nel corso del film è quello del racconto, cosa che potrebbe apparire paradossale in un’opera che rifiuta radicalmente le forme della narrazione lineare preferendole un flusso di immagini e frammenti narrativi apparentemente slegati e chiusi su se stessi. Eppure le storie giocano un ruolo cruciale in Umoregi, un film che si presenta come un vero e proprio profluvio di tracce narrative che si dipanano di scena in scena a partire dalla fantasia dei personaggi, dalle loro esperienze, dalle loro memorie, dai loro insegnamenti, dalla Storia, addirittura dalla Preistoria; ma anche e soprattutto dalla composizione di inquadrature che, attraverso suggestivi giochi di spazi, profondità e cornici, aprono su altre e nuove storie trasportando la fantasia dello spettatore quasi più di quanto non facciano i dialoghi stessi. Ne risulta una vera e propria sinfonia, un suggestivo cicaleccio di digressioni e spunti narrativi, un inno al potere evocativo insito alle parole e alle immagini.  [Giacomo Calorio]

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