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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

Happy Hour

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Happy Hour (id.). Regia e soggetto: Hamaguchi Ryūsuke. Sceneggiatura: Hamaguchi Ryūsuke, Nohara Tadashi, Takahashi Tomoyuki. Fotografia: Kitagawa Yoshio. Musica: Abe Umitaro. Interpreti: Mihara Maiko, Tanaka Sachie, Kawamura Rira, Kikuchi Hazuki. Produttori: Takata Satoshi, Okamoto Hideyuki, Nohara Tadashi.Durata: 317′. Anno: 2015.
Link: Pagina Facebook del filmGiampiero Raganelli (Quinlan) – Vissia Menza (Ma se domani …) – Simone Emiliani (Sentieri selvaggi) – Intervista di Nicolas Bardot  (Film de culte)
Punteggio ★★★★1/2 (4,5/5)

Il capolavoro sommesso di un entomologo delle passioni umane.

La pervasività della rete ha fra i suoi tanti effetti anche quello di dare la sensazione che sia sempre più normale il lontano, il diverso, lo straordinario, in una generale e indifferenziata perdita di peso specifico delle cose e delle persone. Ridare straordinarietà al normale è ridiventato compito della letteratura e del cinema. Nel cinema, però, per i film che si muovono lungo queste linee è molto sottile il confine tra lavori fatti di un minimalismo arty dagli scarsi contenuti e film che davvero riescono a dare significato e vita al racconto, o meglio la percentuale dei primi rispetto ai secondi è schiacciante. Anche per questi motivi, il film-fiume di Yamaguchi (cinque ore e diciassette) mi ha colpito profondamente.

Storia di un breve pezzo di vita di quattro donne trentenni riprese nella loro quotidianità fatta di amicizia, famiglie, solitudini, lavoro, doveri e amori mancati. In Giappone molte amicizie nascono al tempo del liceo e continuano a volte tutta la vita. In questo caso, invece, le quattro donne sono entrate in contatto dopo gli studi, grazie all’impulso di una di loro, Jun, che assegna alle relazioni umane e all’amicizia importanza fondamentale e fa emergere tale sentimento anche nelle altre tre. Le quattro amiche si incontrano, organizzano attività, fanno piccoli viaggi insieme. Lentamente ma concretamente, le loro esistenze si aprono di fronte allo sguardo dello spettatore. 
La situazione più drammatica è proprio quella di Jun, che soffre perché il marito da anni “non si rende conto che lei esiste”. Ha anche avuto una relazione extraconiugale ormai chiusa ma non riesce a uscire dalla gabbia: chiede il divorzio ma il marito glielo nega con una pervicacia al limite del sadismo. Situazione in parte analoga è quella di Fumi, che ha con il marito un rapporto di apparente cortesia ma come se fosse in vitro, senza la minima partecipazione emotiva. E di nuovo simile è il caso di Sakurako, sposata con un figlio, il cui marito ha come unico interesse il lavoro, considera la vita domestica come un disturbo e non ha rapporti fisici con lei da tempo. Akari, invece, è l’unica divorziata del gruppo, fa l’infermiera ed è, in apparenza, molto rigida, tutta d’un pezzo, anche se poi rivela debolezze profonde. Intorno a loro ruotano varie figure, ovviamente i mariti, qualche collega, qualche conoscente occasionale che poi prende corpo come figura autonoma e interagisce con loro.
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Dopo questa lunga immersione nella vita delle protagoniste ci si sente quasi dispiaciuti di non poter continuare a seguirle e allo stesso tempo si rimettono insieme alcuni dei tanti spunti che il film ci ha lanciato. Certamente emerge un quadro delle relazioni coniugali fosco e deprimente. La cosa più inquietante in queste storie di alienazione domestica sono le reiterate affermazioni di tutti e tre i mariti i quali, nei momenti di crisi, dicono di amare le  loro mogli ma di non riuscire a capirle e a comunicare con loro. E le donne, dal canto loro, si sentono tutte, in diversi modi, trascurate, abbandonate, non viste.Un senso di spersonalizzazione che tocca più di un saggio sociologico.
Un altro aspetto che colpisce è come in molti casi i dialoghi passino quasi immediatamente al personale, se non all’intimo, non solo fra le quattro donne ma anche con interlocutori esterni al loro gruppo. Questa familiarità assume ancora maggior peso in contrasto con la mancanza di comunicazione all’interno delle famiglie delle protagoniste, e viceversa.
Oltre a questi aspetti maggiormente sociologici, l’emozione più forte che viene dalla visione è che si ha la sensazione di percepire la vita che scorre nei minuti come negli anni e di come le protagoniste si rapportino a essa interrogandosi continuamente su chi erano, cosa sono diventate, cosa avrebbero voluto essere. Non c’è nostalgia o rammarico, piuttosto un continuo sforzo vitale di aderire alla propria realtà e ai mutamenti continui di essa.
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il film ha una trama ben definita  e uno svolgimento in crescendo. L’esito sorprendente è che chi guarda attraversa le oltre cinque ore di proiezione spasimando per il destino delle quattro donne come se stesse seguendo un thriller. Il merito va a una regia straordinaria che riesce a portare lo spettatore sulla scena e a condividere paure, ansie, rabbie, delusioni e speranze delle protagoniste. Questo risultato è raggiunto soprattutto grazie a due elementi. La prima è una sceneggiatura di suprema intelligenza e sensibilità che, mentre restituisce allo spettatore la trama di un vissuto quotidiano che potrebbe essere di chiunque, non ha paura ad avventurarsi in territori di riflessione in presa diretta, con un esisto dirompente. La seconda sono le quattro attrici stesse. Senza precedenti cinematografici, conosciute da Hamaguchi durante un workshop di recitazione per dilettanti, riescono a trasformare la loro mancanza di esperienza in freschezza e spontaneità ineguagliabili. Non è un caso se al Festival di Locarno 2015 sia le quattro attrici (insieme, fatto inedito) che la sceneggiatura siano stati premiati.
Sconosciuto in occidente (ma si veda la breve appassionata recensione di Mase Yukie di fronte a una retrospettiva dei suoi lavori in Giappone), Hamaguchi è una vera rivelazione, da annoverare fin da subito fra i pochi grandi nomi nuovi del cinema giapponese contemporaneo. Finora aveva firmato una decina di lavori, fra cui alcuni corti, dei documentari, due o tre opere di fiction. Il suo stile sembra collocarsi a uno strano incrocio fra fiction e documentario, come quello di una sorta di entomologo delle passioni umane. Un approccio già sperimentato in Intimacies (Shinimtsusa, 2013), fiction di quattro ore sulla messa in scena di uno spettacolo teatrale, e in The Sound of Waves (Nami no koe: shinchi machi, 2012), girato con il regista Sakai Ko, un documentario basato sul “catturare” le conversazioni di persone che hanno subito lo tsunami nel grande terremoto del Tohoku del 2011. Tutte le esperienze precedenti sembrano giungere a compimento con questo Happy Hour. Attendiamo con ansia i suoi prossimi lavori. Nel frattempo, il consiglio è di leggere la bella intervista fattagli da Nicolas Bardot  (Film de culte), dove racconta dell’ispirazione tratta da Husbands di Cassavetes e annovera fra i registi che più lo hanno influenzato Rohmer, Ozu e Naruse. [Franco Picollo]
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