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Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

Koibitotachi (恋人たち, Three Stories Of Love)

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Koibitotachi (恋人た, Three Stories Of Love). Regia e sceneggiatura: Hashiguchi Ryōsuke. Fotografia: Ueno Shōgo. Scenografia: Ataka Norifumi. Montaggio: Hashiguchi Ryōsuke, Ono Hitoshi; Interpreti e personaggi: Shinohara Atsushi (Atsushi, il vedovo), Batushima Toko (Toko, la casalinga), Ikeda Ryō, Ando Tamae, Kuroda Daisuke, Yamanaka Takashi, Uchida Chika, Yamanaka So, Lily Franky, Kino Hana, Mitsuishi Ken. Produzione: Shochiku / Arc Films. Durata; 140’. Uscita nelle sale giapponesi: 14 novembre 2015.
Links: TrailerSito ufficiale (in giapponese) – Tony Rayns (Vancouver Film Festival) – Kamran Ahmed  (Next Projection) 
Diretto da uno dei protagonisti della rinascita del cinema giapponese degli anni Novanta, Hashiguchi Ryōsuke (Hatachi no binetsu, A Touch of Fever, 1993, Nagisa no sandobaddo, Like Grains of Sand, 1995, Hush!, 2001), sette anni dopo il suo ultimo e toccante Gururi no koto (All Around Us), Koibitotachi (letteralmente: “Innamorati”) è stato definito da Tony Rayns: “il film giapponese dell’anno”.
Forzando un po’ le cose, potremmo dire che ci sono registi che innanzitutto sanno raccontare storie, e registi che, invece, preferiscono costruire personaggi. Hashiguchi, anche sceneggiatore, appartiene indubbiamente a questa seconda categoria. Il racconto, per lui, non è che un mezzo per parlare dell’uomo, dei suoi sentimenti, della sua anima. Narrando tre vicende che si intrecciano fra loro, passando senza soluzione di continuità dall’una all’altra, Hashiguchi disegna uno spaccato che più che sulla singolarità punta su una condizione che è propria di molti, se non di tutti. Una casalinga trascurata e offesa dal marito, Toko, cerca consolazione in un uomo che le appare gentile e innamorato, per poi scoprire che si tratta, invece, di un individuo debole e vile. Un vedovo che lavora, con straordinaria abilità, nella manutenzione dei ponti fluviali, Atsushi, non riesce a dimenticare l’incidente che ha causato la morte della moglie, e nel tentativo di perseguire legalmente il responsabile del fatto, finisce col perdere tutto il suo denaro. Un avvocato omosessuale, Satoshi, vede il suo amante sposato allontanarsi sempre di più dalla sua esistenza.
Le storie di Toko, Atsushi e Satoshi hanno così in comune il tema della sofferenza d’amore: di un amore cercato e non trovato, di un amore perduto definitivamente, di un amore che scivola via, ogni giorno, sempre di più. Insieme all’accurata geometria del suo intreccio complessivo, fatta di abili passaggi da una storia all’altra e di fugaci incontri fra i suoi diversi protagonisti (ad esempio, l’avvocato cui il vedovo si rivolge per ottenere giustizia, è quello del non corrisposto amore omosessuale), Koibitotachi trova le sue principali ragioni d’esistenza nell’intensità di molte sue singole scene.
La corsa in mezzo ai campi, all’inseguimento di una gallina, di Toko e dell’uomo di cui lei è innamorata, ripresa con vorticosi movimenti di macchina a mano, sa esprimere bene le trepidazioni e la gioia di un amore nascente, come riesce a fare anche il semplice gesto della mano di lei che tocca casualmente i fianchi di lui, ma quando, una volta catturato l’animale, l’uomo, con un immediato e inatteso gesto, gli torce il collo, ogni illusione bruscamente finisce con un gesto che sembra voler anticipare e preludere a quella che sarà la conclusione di questa ‘storia d’amore’.
A casa, dopo cena, con la suocera e il marito, Toko è sfiorata da un colpetto sulla spalla dall’uomo. È come un ordine. Lei corre in strada e va a comprare una scatola di preservativi. Rientra, va in camera, si solleva la gonna e si mette a cavalcioni del marito per farsi penetrare, prima di muoversi meccanicamente e andare poi in bagno a lavarsi. Raramente in un film ho visto così intensamente rappresentato l’orrore di certa sessualità coniugale.
Atsushi è in ritardo con le rate dell’assicurazione medica e così non può sottoporsi alle cure che gli sono necessarie. Quando si reca presso l’agenzia, è ripetutamente umiliato, a causa della sua condizione d’indigente, dall’impiegato dietro lo sportello. Il crescere della sua rabbia, la fatica nel riuscire a contenerla sono un altro momento del film che non può non spingere lo spettatore a un sentimento di grande indignazione.
Eppure, nonostante la disperazione che lo pervade, l’epilogo di Koibitotachi, senza essere un lieto fine, si ammanta di una certa speranza. Il marito di Toko fa di nuovo un cenno alla donna, ma quando questa è sul punto di uscire, lui le dice che il preservativo non è necessario, perché, in fin dei conti, sono una coppia. Forse qualcosa in lui è cambiato, e il sorriso di Toko ne è il desiderio
Atsushi è al lavoro sotto i ponti, batte su uno dei suoi muri portanti, e dice “yoshi!” (“tutto bene”); poi tocca a un altro muro e, ancora, a un altro “yoshi!”; infine, solleva lo sguardo in direzione del cielo azzurro, verso cui la macchina da presa salirà, e pronuncia ancora, per una terza e ultima volta, “yoshi!”. Come a dire che la vita non fa che tenderci delle trappole, dentro cui inesorabilmente finiamo col cadere, ma non è detto che non si riesca a uscirne e a ricominciare ancora a correre. “Koibitotachi? Yoshi!”.
Un invito ai festival: una personale completa di Hashugichi è fatta di soli cinque film… e ne varrebbe davvero la pena. [Dario Tomasi]
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