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SONATINE CLASSICS

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Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

Hisohisoboshi (ひそひそ星, The Whispering Star)

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Hisohisoboshi (ひそひそ星, The Whispering Star). Regia, sceneggiatura, soggetto: Sono Sion. Fotografia: Yamamoto Hideo. Montaggio: Itō Jun’ichi. Suono: Komiya Hajime. Production designer: Shimizu Takeshi. Produttori: Funaki Akira, Sono Izumi, Sono Sion, Suzuki Takeshi. Interpreti: Kagurazaka Megumi, Endō Kenji, Ikeda Yūto, Mori Kōko. Durata: 101′. World premiere: 14 settembre 2015 – Toronto International Film Festival. Uscita nelle sale giapponesi: 14 maggio 2016.
Punteggio ★★★★ (4/5)

Una nave spaziale fatta come una sorta di bungalow gira per lo spazio con a bordo un robot di fattezze umane chiamato Yoko. Il suo compito è quello di trasportare e consegnare a domicilio in giro per l’universo dei pacchi mandati da umani per umani.
Sono Sion spiazza un po’ tutti con questo suo lavoro del 2015, non tanto perchè un cinema diverso, minoritario e “vuoto” non sia nelle sue corde di artista, ma piuttosto perchè la sua “trasformazione” degli ultimi anni, il passaggio da regista sì di culto ma in qualche modo ancora di élite, a quello super pop e dalla visibilità mediatica più vasta, non sembrava presagire un ritorno a certe possibilità di cinema che il regista di Toyokawa aveva esplorato durante gli anni novanta. Sembrava insomma che anche Sono si fosse incanalato in una fase della sua carriera simile a quella di Miike Takashi, anche se quest’ultimo a dire la verità riesce, secondo il nostro parere, a dare molto anche nelle grandi produzioni e con cast importanti (eccezione sembra essere l’ultimo film, Terra Formars che è stato da molti criticato). 
Sia come sia, con The Whispering Star, film che ha anche prodotto e scritto oltre che diretto, Sono ritorna a sperimentare e a iniettare nel suo cinema quello stile poetico unico che gli permise di diventare, a cavallo fra il secolo scorso e quello attuale, un nome importante nei circuiti cinefili e festivalieri. Love & Peace che molto era piaciuto a tanta critica rimane, secondo chi scrive, ancora ancorato ad un’idea di cinema abbastanza “tradizionale”. Il fatto che Sono sia anche il produttore di questo film la dice lunga sulle difficoltà nel panorama cinematografico giapponese contemporaneo e conferma l’idea espressa recentemente da Tsukamoto Shin’ya in un’intervista secondo la quale il jishu eiga resta l’unica frontiera nell’arcipelago se si vuole avere libertà espressiva. 
Fin dai primi minuti, The Whispering Star sembra uscire direttamente da uno spin-off di Jeanne Dielman, 23, quai du commerce, 1080 Bruxelles di Chantal Akerman in versione SF, o meglio ancora sembra essere la continuazione di The Room, il lavoro dello stesso Sono del 1993. Il film si apre con Yoko, la protagonista, e con primi piani prolungati su oggetti o azioni dal sapore quotidiano come un rubinetto ed il suo stillicidio, il centrifugare monotono ed ipnotico di una lavatrice e l’aprire e chiudere le porte di una mensola. Dopo questo inizio dove sembra di essere nella cucina di un appartamento qualsiasi, ci rendiamo conto che tutti questi gesti si svolgono su un’astronave attrezzata al suo interno proprio come un mini appartamento ma pur sempre un’astronave. 
Nel suo girovagare per l’universo impegnata a consegnare pacchi ai pochi esseri umani rimasti qua e là su qualche pianeta, Yoko comincia a riflettere in quanto robot sul perchè gli esseri umani decidano ancora di mandare pacchi attraverso un’astronave. Nel futuro in cui è ambientato il film, infatti, esiste anche il teletrasporto. Ma così facendo, spedendo cioè degli oggetti per lo più legati alla quotidianità, gli esseri umani cercano di tessere i fili della memoria, memoria che è tempo concretizzato negli oggetti, anche quando questi sono indirizzati a persone che nel frattempo sono scomparse. Il tempo e la memoria sembrano essere – nel film niente è direttamente spiegato ma va esperito per le intensità ed i simboli che ci vengono di volta in volta presentati – il crinale che separa l’umanità dal resto del creato, un’umanità che è quasi estinta e che quando è ancora presente è vecchia e derelitta. In questo senso vedere le vere zone devastate vicino a Fukushima, città e luoghi fantasma popolati da poche ed anziane persone, diventare i pochi residui di umanità nell’universo nel film, è davvero un’affermazione visiva potente e ricca di risonanze. Ma il film, che è tutto girato in una sorta di bianco e nero seppiato tranne una brevissima scena in cui il colore arriva come un lampo negli occhi, è tutto un susseguirsi di scene o gesti simbolici dai significati multipli: una falena eternamente intrappolata in una plafoniera all’interno dell’astronave, la rottura del nastro magnetico su cui Yoko registra il suo diario di bordo e quella del computer di bordo o ancora una lattina che, incastrata sotto il piede di un anziano signore in un pianeta, diventa il solo conforto sonoro alla solitudine. Simbolicamente importante è soprattutto la scena finale: arrivata a destinazione su un pianeta dove gli umani sono più numerosi che in altre parti, Yoko attraversa dei corridoi infiniti ai lati dei quali, quasi come le visioni di uno spettacolo di marionette balinesi, si muovono le ombre di persone e bambini impegnati nella loro quotidianità: ragazzi che giocano, famiglie che si riuniscono, coppie che pranzano. Ombre che sono forse solo gli spettri di un’umanità che fu, una scena stilizzata e travolgente tanto per illuminazione e resa visiva, quanto per le implicazioni filosofiche che essa porta con sé. 
Il vero protagonista della storia è il tempo con la sua caducità intrinseca, che Sono ci fa pesare fin dalle battute iniziali e che elabora nel corso del lavoro attraverso i pochi incontri del robot con gli umani. Un tempo che si dilata nell’infinito dello spazio e che finisce per sparire e consumarsi. Il robot Yoko è estranea al tempo, ma noi spettatori umani lo esperiamo e lo sentiamo avvolgersi attorno a noi durante tutto il film come una coltre di nebbia a cui non si può sfuggire. [Matteo Boscarol]
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