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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

AINU MOSIR (Ainu Moshiri, FUKUNAGA Takeshi, 2020)

SPECIALE NIPPON CONNECTION (Francoforte, 1-6 Giugno 2021)

★★★

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Ainu Mosir è l’antico nome con cui gli indigeni Ainu indicavano la loro terra nativa, l’isola di Hokkaidō, all’estremo nord dell’arcipelago giapponese. Qui, nel piccolo villaggio di Akan, vive con la madre il giovane Kanto, discendente della locale comunità autoctona. Assimilati all’influenza giapponese che ha quasi del tutto eroso la lingua Ainu, gli abitanti sopravvivono come polo di attrazione turistica, tra piccole botteghe artigianali e negozietti che catturano la curiosità dei visitatori. Quando i membri del villaggio decidono di officiare un caratteristico e solenne rituale, per Kanto verrà l’occasione di scoprire il mistero della cultura d’origine e di avvicinarsi alla figura del padre defunto. 

Dopo l’esordio con Out of My Hand (2015) – la vicenda di un  coltivatore di piante di gomma trasferitosi a fare il tassista a New York – Fukunaga Takeshi conferma con Ainu Mosir la predilezione per storie meticce all’incrocio tra natura e culture diverse. Tra l’evocazione di voci e presenze del paesaggio primordiale incontaminato e il linguaggio omologante della civilizzazione moderna, che rischia di estinguere e rendere incomprensibile per le nuove generazioni il valore di tradizioni secolari. 

Incentrato proprio sul percorso di crisi e costruzione dell’identità di Kanto, il film è un atipico coming of age che contiene il tema della fuga ribelle in un problematico – ma infine pacificato – elogio della stanzialità. Cercando una sintesi felice nel sincretismo dei modelli a confronto, con Kanto che alterna gli strumenti musicali degli artigiani Ainu e i riff rockeggianti di Johhny B. Goode, tra vecchi Vhs con le memorie di famiglia e Independence Day visto alla Tv. 

Fedele al precetto “Nothing on earth is without purpose” leggibile su un cartello (è la tagline del film), e alle credenze Ainu, Fukunaga adotta una messinscena “animistica” che incorpora negli animali misteriose suggestioni metaforiche. Il gufo, manufatto scolpito o uccello sul ramo, forse, lynchianamente, non è ciò che sembra, ventilando possibili reincarnazioni ultraterrene. La figura emblematica è però quella dell’orso: al centro di un montaggio parallelo su due livelli temporali – il vecchio e il nuovo rituale – che in un’eco di F.F. Coppola giustappone la mattanza dell’animale e la perdita dell’innocenza (visiva) di Kanto. Ma a catturare l’occhio è soprattutto la soggettiva dello sguardo dell’orso abbattuto: il controcampo dall’altrove ancestrale, lo sguardo dall’aldilà, che può aprire al contatto tra Kanto e il padre-revenant.

Impiegando una narrazione debole e contemplativa – talvolta più da ascoltare che da guardare – Fukunaga prepara per i nostri occhi di ospiti incuriositi una sorta di cerimoniale parallelo a quello allestito dai personaggi. Descrivendo dall’interno gesti e attività degli Ainu con la perizia meticolosa di un documentario etnografico e antropologico che incontra la dimensione fiabesca del mito e del folklore. Kanto cerca di ricongiungersi al genitore come un Cappuccetto Rosso nel bosco innevato. In una simbolica parabola sulla scoperta dell’ignoto, sull’andare oltre (il varco aperto tra le rocce): l’attraversamento della soglia della maturità, che comporta la comprensione del significato del sacrificio di sangue, l’accettazione delle leggi naturali, dunque anche brutali, del mondo degli adulti. 

Daniele Badella


Titolo originale: アイヌモシリ (Ainu moshiri); regia e sceneggiatura: Fukunaga Takeshi; fotografia: Sean Price Williams; montaggio: Deguchi Keiko; musiche: Clarice Jensen; interpreti: Shimokura Kanto (Kanto), Akibe Debo (Debo), Shimokura Emi (Emi), Franky Lily (Okada); produzione: Nyari Eric, Miyake Harue; durata: 84’; prima mondiale: Tribeca Film Festival, 15 aprile 2020.

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