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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

THE BLOOD OF REBIRTH (Yomigaeri no chi, TOYODA Toshiaki, 2009)

SPECIALE TOYODA TOSHIAKI

★★★½


Non ho mai ritenuto imprescindibile conoscere la biografia di un autore per comprenderne la sua opera. Ho sempre creduto che un testo artistico dovesse, innanzitutto, essere in grado di parlare in sé e per sé a coloro a cui è destinato. Ma un film come The Blood of Rebirth (Yomigaeri no chi) mi spinge, in parte, a ricredermi. Il suo potente fascino, o almeno quello di alcune sue parti, non potrebbe essere avvertito senza conoscere un fatto essenziale della vita e della carriera del suo autore. Toyoda Toshiaki è stato tra la fine degli anni Novanta e la prima metà degli anni Zero, uno dei cineasti più importanti del Nuovo cinema giapponese, come testimoniano, in misura diversa, film quali Pornostar, Unchain, Blue Spring (Aoi Haru), Nine Souls e Hanging Garden (Kūchū Teien), sui cui ritorneremo certamente sulle ‘pagine’ di questo blog. Ma nel 2005, arrestato per possesso di stupefacenti, e, secondo un metodo frequente in Giappone, isolato e allontanato bruscamente dal mondo del cinema, la sua carriera subisce un grave arresto.

Dopo quattro anni di silenzio obbligato, Yomigaeri no chi rappresenta così la resurrezione – «yomigaeri», «rebirth» – di un cineasta. Girato con un budget ridotto – e non poteva essere altrimenti – il film si ambienta in un lontano passato mitico e astorico, dove gli uomini convivono con un mondo immaginario. La storia, ispirata a una leggenda più volte messa in scena dal kabuki e dal bunraku, è quella di un massaggiatore itinerante, Oguri (interpretato da Nakamura Tatsuya,  percussionista del gruppo «Twin Tail»), che finisce nell’accampamento di un signore locale, Dayo (Shibukawa Kyohiko), crudele e malaticcio, nonostante la giovane età, a cui presta i suoi servigi e l’arte delle sue mani. Accortosi che la sua donna, Terute (Kusakari Mayu) è attratta dal nuovo venuto, Dayo lo avvelena, prima, e finisce con la spada, poi.  Giunto in una sorta di limbo, a metà strada fra l’inferno e il paradiso, Oguri ne convince il suo guardiano a rispedirlo sulla terra. Fatto ritorno nel mondo dei vivi, l’uomo si scopre privo di ogni forza ed energia. Ad accudirlo ci penserà Terute, nel frattempo fuggita dal campo del suo signore. Ma Dayo non ne vuole sapere e, raggiunta la donna, la uccide con un colpo di spada. Rimasto solo, Oguri riesce a raggiungere una magica pozza d’acqua rossa (sangue?), grazie a cui, dopo esservisi immerso, ritrova le sue energie.  L’uomo potrà così portare a termine la sua vendetta contro Dayo, prima di morire e rinascere ancora insieme a Terute.

Quella di Yomigaeri no chi è così una storia di morti e rinascite, che riecheggia in modo evidente la sorte dello stesso Toyoda, sia come uomo, sia come cineasta. I momenti di maggiore intensità del film sono, infatti, quelli legati alla ‘convalescenza’ di Oguri e alla sua rinascita vera e propria; prima le lunghe scene in cui l’uomo privo di energia è trascinato nei boschi su una slitta, che Terute traina a fatica; e poi, quando si immerge nella magica pozza che gli consente, davvero, di risorgere. Quest’ultima sequenza si affida sia al montaggio,  sia al long take dinamico per sprigionare tutta la propria forza. Dapprima l’immersione di Oguri è associata alle immagini di Terute che trascina la slitta, e un dettaglio al rallentatore mostra la corda che si spezza (il necessario, e un po’ nicciano,  strappo del cordone ombelicale, come nicciana è la logica dell’eterno ritorno che soggiace al film); poi le immagini dell’uomo che urla la propria ritrovata energia sono accompagnate da una lunga e ininterrotta ripresa in movimento (quasi cinque minuti) che lo avvolge e sostiene, sino a che una dissolvenza in rosso (il colore preferito da Toyoda) pone termine alla sequenza. Il tutto è accompagnato dalla “liquida” e suggestiva musica dello stesso Nakamura e delle «Twin Tail». Se associamo queste immagini (e questi suoni) a quella che è stata la drammatica storia di Toyoda e alla sua resurrezione, che questo film rappresenta,  dobbiamo riconoscere ad esse un rara forza espressiva, che ne fa uno dei momenti più alti del cinema giapponese del nuovo millennio.

Altri elementi che caratterizzano il film sono: l’attenzione al paesaggio (che gli conferisce una dimensione quasi mistica, o se preferite un po’ new age, insieme a un andamento molto allentato dello sviluppo narrativo, favorito anche dall’insistenza dei ralenti); l’adesione dell’autore al suo protagonista (suo evidente alter ego, e alla resa dei conti un outsider simile a quelli degli altri film di Toyoda); l’insistenza – anche attraverso i dialoghi – nel definire il mondo dei vivi come un inferno, peggiore dell’inferno vero e proprio; un certo gusto per l’astrazione (in particolare nel prefinale, in cui le teste decapitate di Oguri e Dayo continuano la loro lotta, immerse in un liquido rosso, quasi trasformandosi esse stesse in macchie di colore); e, infine, un buona dose di humor (come è nella rappresentazione del perfido Dayo, in realtà una figura basso mimetica, che soprattutto ci fa sorridere nella sua crudele dabbenaggine; e, soprattutto, nella scena in cui gli uomini dello stesso Dayo tengono in mano i teschi dei due rivali e litigano nel sostenere quale sia dell’uno e quale dell’altro).

Dario Tomasi

Titolo originale: 蘇りの血 (Yomigaeri no chi); regia: Toyoda Toshiaki; soggetto: da un dramma di Oguri Hangan; sceneggiatura: Toyoda Toshiaki; fotografia: Shigemori Toyotaro; scenografia: Harada Mitsuo; costumi: Iga Daisuke; montaggio: Murakami Masaki; musica: Twin Tail; interpreti: Nakamura Tatsuya (Oguri), Kusakari Mayū (principessa Terute), Shibukawa Kiyohiko (Lord Daizen), Arai Hirofumi (Shuma); produzione: Chiba  Koji per Matsuri, Media Factory, Phantom Film, Studio Swan, TYO Productions; anno di produzione: 2009; durata: 83’; uscita nelle sale giapponesi: 19 dicembre 2009.



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