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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

EVERY-NIGHT DREAMS (Yogoto no yume, NARUSE Mikio, 1935)

SFUMATURE DI GRIGIO: IL CINEMA DI NARUSE MIKIO

 

 

Dal 1930 (anno del suo esordio alla regia) al 1934, Naruse è sotto contratto alla Shōchiku, dove realizza 24 film, tutti muti, di cui solo 5 (Flunky Work  Hard, Not Blood Relations, Apart from You, Every-Night Dreams e Street without End) sono stati conservati. Poco soddisfatto dei suoi rapporti con Kidō Shiro, il direttore della stessa Shōchiku che non aveva nei suoi confronti una grande stima  –  «Non ci serve un secondo Ozu», pare amasse ripetere – e desideroso di passare al sonoro, Naruse approfitterà della nascita della P.C.L. (Photo Chemical Laboratory), per abbandonare la compagnia dove aveva lavorato 14 anni (vi era entrato giovanissimo nel 1920), e dare così il via al secondo periodo della sua lunga carriera.

Every-Night Dreams è uno dei film più importanti del Naruse muto: attraverso il ritratto di Omitsu, una donna nei fatti sola che, per mantenere il figlio, Ayabou, lavora come hostess in un bar di cui è la principale attrazione, dà già corpo – grazie anche all’interpretazione di Kurushima Sumiko, forse la più importante star della Shōchiku del periodo – a uno di quegli intensi ritratti femminili, fatti di dolcezza e determinazione, che insieme a una cupa visione del mondo, saranno due delle caratteristiche maggiori del Naruse della maturità. 

A fianco di Omitsu, c’è il marito Mitsuhara – interpretato da Saitō Tatsuo… molti lo ricorderanno nel ruolo del padre di Sono nato, ma – che dopo essersene andato tre anni prima, ritorna in seno alla famiglia. Tanto la moglie è una donna forte, pur in tutta la sua fragilità, quanto il marito è un uomo debole, come testimonia il suo suicido, che provocherà non solo il dolore di Omitsu ma anche la sua rabbia nei confronti della codardia del coniuge, che così per una seconda volta la lascerà sola ad affrontare la vita e i suoi drammi.  

Seppur con un eccesso melodrammatico, tipico dell’imperante influenza del teatro shinpa sul cinema giapponese dell’epoca, i temi dominanti del film sono già quelli del Naruse a venire, non altrettanto si può dire dello stile che è segnato da un evidente gusto per l’attrazione dai toni flamboyant, comune a molti film nipponici degli anni del muto. Non si tratta, tuttavia, di un semplice virtuosismo ma semmai di un uso marcato dei codici del linguaggio cinematografico funzionale a porre in primo piano la soggettività dei protagonisti della storia, e in particolare quella di Omitsu. Il segno più evidente di questa scelta sono i copiosi movimenti di macchina in avanti a stringere sul volto di un personaggio in funzione esclamativa, come accade, fra i tanti altri casi, quando Omitsu rivede il figlio, dopo una breve assenza di qualche giorno, nei numerosi confronti e scontri col marito, o, ancora, nel corso del disperato epilogo che segue il suicidio dell’uomo. 

Ai movimenti di macchina si affianca il virtuosismo del montaggio fatto di pezzi brevi, quando non brevissimi, e immagini deformate che drammatizzano e soggettivizzano momenti forti come quelli dell’incidente d’auto di cui è vittima il figlio e, di nuovo, del suicidio del marito (eventi che il film mette in ellissi rivelandoli allo spettatore solo quando Omitsu ne è messa a conoscenza: come a dire che più che i fatti a contare sono i sentimenti di chi li vive).

Non mancano poi gli stacchi a 180°, le inquadrature a picco, quelle inclinate, i giochi d’ombra – ad esempio, quella oltre gli shōji del marito che si appresta a compiere un crimine per trovare i soldi necessari alle cure del figlio – a fare del film un vero e proprio scoppio di fuochi d’artificio. 

Due oggetti, poi, giocano un ruolo di primo piano in Every-Night Dreams: lo specchio e i giocattoli di Ayabou. Sono diversi, e tutti toccanti, i momenti in cui Omitsu si specchia: sia quando è costretta a prepararsi per andare al lavoro – dove comunque deve essere “bella” di là dai sui affranti sentimenti – sia quando semplicemente si guarda, invitando lo spettatore a fare altrettanto, per coglierne sul volto l’espressione del suo dolore e delle sue sofferenze.  Per quel che riguarda i giocattoli, poi, essi rinviano continuamente, anche quando questi è assente, al bambino, e di conseguenza alle responsabilità di Omitsu e agli obblighi che il suo ruolo di madre le impongono, ribadendo così la predominante soggettività del film, il suo far passare ogni cosa attraverso i sentimenti della protagonista (anche quando si rinvia ad altro o ad altri). Ancora ai giocattoli, in particolare al modellino di un’auto, è poi affidata la scena che rappresenta l’incidente di cui è vittima il figlio, quando, mentre il padre e la madre stanno discutendo, questo modellino precipita a terra, anticipando, di un attimo, l’accorrere di un gruppo di bambini, di cui sono mostrate solo le gambe, che annunciano ai due quanto è appena accaduto ad Ayabou. 

In tutti i suoi “eccessi” di stile, Every-Night Dreams testimonia bene l’originalità di un cinema, quella del muto giapponese, che non può essere certo omologato, sul piano delle scelte di rappresentazione, ai coevi modelli occidentali. 

Dario Tomasi

 

Titolo originale: 夜ごとの夢 (Yogoto no yume); regia e soggetto: Naruse Mikio; sceneggiatura: Ikeda Tadao; fotografia: Inokai Suketaro; Luci: Noguchi Shōzō; scenografia: Hamada Tatsuo; interpreti: Kurishima Sumiko (Omitsu), Kojima Teruko (Ayabou, il figlio), Saitō Tatsuo (Mitsuhara, il marito), Arai Jun (il vicino), Yoshikawa Mitsuko (la moglie del vicino),  Sakamoto Takeshi (il marinaio); Iida Chōko (la proprietaria del bar); produzione: Shōchiku (Kamata); durata: 64’; prima uscita in Giappone: 8 giugno 1933. 

 

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