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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

GLI ULTIMI CRISANTEMI aka TARDI CRISANTEMI (Late Chrysanthemums/Bangiku, NARUSE Mikio, 1954)

SFUMATURE DI GRIGIO: IL CINEMA DI NARUSE MIKIO

Non siamo morbosi e indiscreti nel ricondurre all’infausta biografia di Naruse Mikio il formarsi progressivo di una poetica degli ultimi e dei miserabili e, in particolare, l’evolversi delle sue ossessioni tematiche incentrate su problematici e struggenti ritratti femminili, destinati all’amarezza e alla sconfitta in un duro mondo senza uscita, spietatamente insensibile agli sforzi umani tesi all’impossibile raggiungimento della serenità. Scottato in età precoce da una terribile esperienza di indigenza personale (la sorella venduta come geisha per il sostentamento della famiglia, con il regista, giovanissimo, costretto a lavorare per sopravvivere) che spesso ne ha radicalmente orientato – tra le altre cose – la naturale confidenza nell’adottare, appunto, la figura della geisha come topos esemplare per la descrizione di un femminile prostrato in cerca di emancipazione e identità, già al centro del muto del 1933 Apart from You (Kimi to wakarete) e ancor più del successivo Flowing (Nagareru, 1956). 


In Gli ultimi crisantemi (1954), in fase di piena maturità artistica e padronanza espressiva, Naruse filma come un lento rintocco narrativo il monotono tran tran esistenziale di quattro sfiorite ex geisha in pensione, nemiche-amiche gentili e detestabili, che tra rancori mai sopiti, grette invidie e inediti slanci di generosità, nel travagliato panorama sociale della Tokyo del Dopoguerra si trovano a fare i conti con le difficoltà di tirare avanti: sono la cinica e risoluta Kin, sfrontata usuraia profittatrice (l’austera e indocile Sugimura Haruko, già interprete di Shige, la figlia più anziana della coppia di Tokyo Story, 1953, di Ozu); Nobu (Sawamura Sadako), proprietaria di una taverna che spera di avere un figlio in tarda età; la delicata Tamae (Hosokawa Chikako), bellezza ancora piacente ma indebolita da una cardiopatia; e infine la sprezzante e spartana Tomi (Mochizuki Yūko), che accumula perdite al gioco d’azzardo smorzando i dispiaceri col vizio della bottiglia.   

Naruse adotta una scansione temporale circolare improntata alla staticità di abitudini fisse e ripetuti appuntamenti tra le quattro donne: la cornice narrativa – aperta e chiusa dalle stesse ore (le 11.25) segnate dall’orologio a muro di Kin – nell’arco di quattro immutabili giorni ne passa in rassegna i gesti comuni, l’annoiata routine, i piccoli vizi e gli scafati espedienti per arricchirsi e mettere il cibo in tavola, le affettate conversazioni e gli incontri quotidiani che si ripetono ciclicamente uguali a se stessi. In un microcosmo femminile sbiadito e appassito come i crisantemi del titolo, drasticamente svuotato di ambizioni e progetti di vita, prosciugato di affetti, è il denaro l’unico collante sociale che muove il corso degli eventi, sostanzia le relazioni e tiene avvinte le precarie esistenze delle donne. Quasi ogni dialogo fa riferimento al suo desiderio e possesso, e ai benefici che esso comporta. Tutti i rapporti messi in campo si allacciano e definiscono in relazione alla ricerca e all’ottenimento pratico di un prestito di soldi (a turno, praticamente ogni personaggio si reca in pellegrinaggio per farne richiesta). La stessa Kin, pur benestante e gerarchicamente superiore, in virtù del redditizio strozzinaggio, non smette di vantare crediti e pretendere dovute elargizioni dalle compagne più disgraziate di lei. 

Naruse ritrae con asciutto piglio antropologico, senza il pietismo della commiserazione né eccessi melodrammatici, un cupo, cinico e spietato universo materialista, in cui la mercificazione dei corpi sfioriti delle geisha – non più spendibili sul mercato per acquisire benessere economico, regalie e prestigio sociale – ha ceduto il passo a un avido affarismo finanziario che lucra sulle macerie fisiche e morali e specula sulle miserie umane della società giapponese del Dopoguerra, ferventemente operosa quanto arida e anaffettiva, disgregando quanto rimane dell’unità della famiglia tradizionale e della spontanea solidarietà tra individui. Quando sentiamo Tomi affermare che «i soldi hanno valore solo in base a come li si usa», abbiamo la sensazione che lo stesso principio di manipolazione sia ormai in uso corrente nel disporre delle persone secondo mera convenienza utilitaristica.

La rigorosa pulizia formale, l’essenzialità del tratto, l’estrema concisione dello stile di Naruse emergono da inquadrature brevi e scambi di montaggio rapidi e impercettibili, ancorati al posizionamento dei personaggi in campo nei diversi angoli dei set in interni, sezionati e disposti come arredi modulari: corridoi, porte scorrevoli, ingressi e anticamere, retrobottega e salotti della tipica dimora giapponese sono il fulcro scenografico in cui le donne si trovano geometricamente incassate, in un retaggio formale che le vede impossibilitate a staccarsi dal quadretto dei ruoli stabiliti della tradizione per abbracciare un vero disegno alternativo, autonomo e personale. C’è qui, perfettamente rappresentato in un preciso frangente storico, il dilemma etico, estetico e culturale dell’irrisolvibile contraddizione dell’identità giapponese, per Naruse sempre oscillante tra classicità e modernità, nella sofferta ambivalenza tra i tentativi di slancio verso il cambiamento e il peso ereditario delle radici da cui non si può mai prescindere del tutto. 

Alcuni scarti stilistici più marcati si segnalano in un uso preciso di elementi sonori extradiegetici – il leggero ma insinuante ticchettio di bacchette che ricorre a tamburellare sull’inesorabile flusso circolare del tempo (perduto), come il rumore implacabile delle lancette di un orologio – e nelle frequenti ellissi, che creano sottili rime concettuali interne alle inquadrature, coprendo momenti e distanze spaziali considerevoli: si prenda la scena del confronto al ristorante tra Tomi e la figlia Sachiko (che ha appena annunciato di volersi sposare), con lo stacco successivo che mostra come Tomi sia ora (tele)trasportata nell’abitazione di Kin per un simile momento conviviale: passaggio che ne amplifica il carattere di puro andirivieni automatico e rituale, ripetuto in serie, senza apparente volontà, fuori dalla logica del movimento trasformativo, indipendente dal contesto. O ancora la scena che vede Kin, infastidita dalla sgradita visita del vecchio amante Seki, ritirarsi a bere un tè in solitaria, con la giovane domestica sordomuta che, chiuse le porte dietro alla padrona, inizia a spazzare il pavimento con la scopa: segmento raccordato nell’inquadratura successiva a Tamae che nella sua abitazione compie distrattamente il medesimo gesto di pulizia; la prima avvisaglia di un passato di gioie e dolori che, ormai polvere, sta per essere definitivamente spazzato via. 
 
Il successivo – altrettanto deludente – incontro tra Kin e il suo amato Tabe, e insieme l’accorato confronto vis-à-vis tra Tomi e Tamae, alternati in montaggio parallelo, costituiscono l’insuperato climax emotivo: il complesso groviglio di sentimenti, fin dall’inizio tenuti a bada e mascherati nel rigido e fasullo agire sociale, ribollenti sotto la superficie apparentemente composta delle donne, vengono esternati al culmine di pathos sensoriale, intensità poetica e verità umana. In un singolare contrasto, i personaggi si mostrano (indifesi) in tutta la loro angusta vulnerabilità proprio nel momento in cui vengono a galla le loro preoccupazioni e motivazioni più materiali, bieche e stringenti (anche il signor Tabe, al pari di tutti gli altri, è occorso in visita per strappare un prestito di denaro). Complici i fumi dell’alcool, che scorre copioso tra la casa di Kin e quella delle conviventi Tamae/Tomi, si rompono gli argini della facciata oggettiva e si libera la dimensione più autentica e introspettiva: da una parte Tamae e Tomi si scambiano mesti e struggenti soliloqui – quasi teatrali – sul senso ultimo e i valori del vivere, dall’altra il monologo interiore di Kin che, per la prima volta, accompagnata dalle note dello shamisen, ci fa accedere in voice over ai suoi più intimi dubbi e segreti, rompendo la corazza imperturbabile fin lì indossata. 

Come spesso accade in tutta la sua opera, Naruse fa dunque irrompere l’imprevisto elemento naturale nella stasi immobile del quotidiano come un contrappunto melanconico che increspa e scuote lo stato d’animo delle protagoniste: la placida e ovattata pioggia che scroscia nella notte silenziosa non funge però da forza distensiva e sanificatrice, che aiuta ad alleviare pene e sgravare coscienze, lavando via il languore, rimpianti, sensi di colpa. Ma è come inghiottisse definitivamente, in un gorgo d’amaro oblio, il felice passato a lungo idealizzato dalle donne, diluendo una volta per tutte le memorie nostalgiche, i sogni traditi e irrealizzati, i ricordi e le speranze mancate (la vecchia fotografia di Sabe bruciata da Kin). Dissolvendo anche le residue illusioni di felicità (per Kin, la possibilità di un amore risvegliato con il signor Tabe), o i legami e i contatti a cui restare aggrappati per un appiglio affettivo in procinto di abbandono (i figli di Tomi e Tamae stanno per lasciare, forse per sempre, il nido domestico). 

Eppure, se nell’ineluttabile fatalismo e nel pessimismo cosmico di Naruse la condanna al grigiore della solitudine e al deserto sentimentale non potranno mai essere completamente riscattati, nell’amaro «sentiero di vanità senza fine» che è la vita resta un lieve spiraglio per la sua accettazione: l’ironico finale in cui Tomi e Tamae, osservato dal ponte il treno che fugge in lontananza (correndo veloce sui binari del progresso), ridono complici allo sfilare di una donna – moga abbigliata e acconciata all’occidentale – dal pronunciato ancheggiare alla Marilyn Monroe, prontamente imitata da Tomi (in un gesto d’emulazione che rimanda alla spigliata sicurezza con cui la ragazza di Wife! Be like a rose! (1935) inscena un autostop alla Claudette Colbert in Accadde una notte (1934) di Capra). Un possibile, non troppo infelice compromesso, senza (più) eccessivi scompensi, con i nuovi costumi, modelli e immaginari della modernità che avanza ed estende i suoi orizzonti (significativamente netto il contrasto tra l’antica shitamachi e la nuova Tokyo, tra l’opprimente claustrofobia degli interni della prima parte e il paesaggio della brulicante metropoli in espansione degli esterni nel finale). Per almeno provare a superare una condizione femminile antiquata, dimessa e ancillare. Inseguendo, chissà quanto vanamente, una baldanza giovanile riscoperta per un attimo in una passeggiata sul marciapiede. Con la consapevolezza che la vita sarà sempre un perenne e faticoso cammino in salita verso un destino sconosciuto (Tamae accompagna il figlio in partenza sulle scale della metropolitana) o in discesa verso un vuoto avvenire aperto sull’ignoto: nell’ultima immagine, Kin esce dalla stazione scendendo i gradini e allontanandosi progressivamente dalla m.d.p., verso uno scarno e sgombro spazio urbano – e vitale – ancora tutto da (ri)costruire. 

Daniele Badella


Titolo originale: 晩菊 (Bangiku); regia: Naruse Mikio; sceneggiatura: Tanaka Sumie, Ide Toshirō; soggetto: adattamento da tre racconti brevi (Bangiku, Suisen, Shirasagi) di Hayashi Fumiko; fotografia: Tamai Masao; scenografia: Chūko Satoru; montaggio: Ooi Eiji; musica: Saitō Ichirō; interpreti: Sugimura Haruko (Kin), Sawamura Sadako (Nobu), Hosokawa Chikako (Tamae), Mochizuki Yūko (Tomoi), Uehara Ken (Tabe), Miake Bontarō (Seki), Koizumi Hiroshi (Kiyoshi), Arima Ineko (Sachiko), Katō Daisuke (Itaya); produzione: Fujimoto Sanezumi (Toho company); durata: 101′; uscita in Giappone: 15 giugno 1954; inedito in Italia.
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