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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

THE WANDERING PRINCESS (Ruten no ōhi, TANAKA Kinuyo, 1960)

INTEGRALE TANAKA KINUYO. CINETECA BOLOGNA 11-30 MARZO


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Dicembre 1957, Monte Amagi: in una boscaglia una donna copre con una coperta il cadavere di una ragazza. Vediamo prima i piedi, con una sola scarpa calzata, poi un berretto e infine il volto. Anni Trenta: la donna assiste, visibilmente eccitata, a una parata militare. Siamo durante l’occupazione militare della Manciuria da parte del Giappone, la donna, Ryūko, appartenente a una nobile famiglia aristocratica non sa ancora che il suo destino è segnato perché dovrà andare in sposa a Futetsu, il fratello dell’imperatore fantoccio del cosiddetto Impero di Manciuria. A dispetto delle diffidenze iniziali e della ritrosia della famiglia nel sacrificare la donna in nome della ragion di stato, tra Ryūko e Futetsu nasce un grande amore che porterà la donna ad affrontare stoicamente le vicissitudini storiche a cui andrà incontro.

Al suo quarto film, Tanaka Kinuyo abbandona il bianco e nero e il formato classico per cimentarsi con il colore e con il widescreen. Una scelta probabilmente “naturale” e obbligata, dettata dal passaggio di gran parte del cinema mainstream, non solo nipponico ovviamente, dalla ratio classica (i primi tre film di Tanaka sono realizzati nel formato 1.37 : 1) ai nuovi superformati 2.35 : 1. Un mutamento che – come spesso accade – costringe molti autori a interrogarsi sullo spazio filmico e profilmico, sui rischi che tali formati possano avere sui primi piani oppure sulle scene in interni (celebre, a questo proposito, la stroncatura di Fritz Lang per cui il Cinemascope andava bene solo per filmare serpenti e funerali). Tanaka Kinuyo sembra padroneggiare bene il nuovo formato che ben si adatta, soprattutto nella seconda parte, alle molte sequenze in esterni e, in generale, a una storia dai toni melodrammatici che dialoga apertamente con la Storia: il soggetto, infatti, è tratto dal romanzo autobiografico di Saga Hiro (la Ryūko del film, interpretata dalla star Kyō Machiko, che nella realtà prenderà il nome di Aishinkakura Hiroko) che andò in sposa a Pujie Aisin Gioro, il fratello di Pu Yi ovvero l’ultimo imperatore cinese della dinastia Qing, portato sullo schermo nel celeberrimo film di Bernardo Bertolucci.

 

Anche l’uso del colore viene interpretato dalla regista con una palette cromatica che esprime con grande efficacia le emozioni dei personaggi. In questo senso, particolarmente affascinante è il dress code adottato da Tanaka per il personaggio di Ryūko lungo tutto il film. Per esempio nella prima sequenza, con la splendida carrellata che segue la marcia dei militari, la donna, vestita all’occidentale, sfoggia un elegante abito nero con guanti bianchi, “vivacizzato” dalla borsetta e dalla cartella dei dipinti di colore rosso fiammante. Un secondo abito, simile nella foggia, ma di colore azzurro pastello, viene indossato da Ryūko poco prima di venire a sapere che dovrà andare in sposa a Futetsu. Sono gli unici due outfit marcatamente occidentali che segnano l’indipendenza e la libertà di Ryūko, il suo non assoggettamento alla volontà di chi intende decidere del suo destino. E sono anche l’espressione di una sensualità ancora acerba ma intrigante, un misto di ingenuità ma anche di consapevolezza del proprio corpo da sfoggiare attraverso abiti che mostrano apertamente le gambe, che segnano i fianchi, che disegnano una silhouette affascinante, valorizzata dalle scarpe con i tacchi. 

Nel primo incontro ufficiale con il futuro marito, Tanaka ci presenta invece una Ryuko completamente diversa, ingessata nel kimono, remissiva, perennemente con lo sguardo in basso, in contrapposizione con la fierezza che aveva mostrato prima. Ma la cesura più netta e clamorosa è quella in cui, prima del matrimonio, Ryūko riceve in dono un abito rosso, nello stile cinese, il cheongsam. Tanaka ci mostra questo passaggio con grande enfasi: prima il dettaglio del cofanetto, anch’esso rosso, che contiene il vestito e poi un totale con l’abito appeso al muro, come se fossimo in un atelier di moda, osservato dalle donne della famiglia di Ryūko, mentre il futuro marito sottolinea come, nella tradizione cinese, per le spose, durante il primo anno di matrimonio, sia consuetudine indossare un abito rosso. Per la prima volta, dopo la notizia del matrimonio combinato, Ryuko alza nuovamente lo sguardo per ammirare il vestito rosso che sembra conquistarla: un sorriso le compare sul volto mentre il suo sguardo si incrocia con quello di Futetsu. 

Il vestito rosso “alla cinese” acquista un ruolo ancora più pregnante (è il caso di dire) nella sequenza in cui la coppia si è definitivamente trasferita in Manciuria. Takana ci mostra una prima inquadratura “saturata” dal rosso dell’abito, con il dettaglio delle mani di Ryūko che stanno lavorando a maglia (segno evidente che è in attesa di un figlio). La sequenza prosegue con Futetsu che – con la dolcezza e la premura di un innamorato – mostra l’esterno della casa (una vecchia fattoria mongola) che si staglia nel paesaggio brullo e desolato. Ancora una volta il contrasto tra il paesaggio e la silhouette di Ryūko conquista gli occhi di noi spettatori: l’uomo, per lenire la nostalgia del Giappone della consorte, le racconta di come diventerà bello quel luogo, adesso così spoglio e grigio. Con l’arrivo della bella stagione ci saranno i conigli che correranno nei prati, verranno messe delle piante di albicocchi, “simili ai fiori di ciliegio” puntualizza Futetsu. In Cina, ricorda il marito, ci sono grandi piantagioni e, durante la primavera, i loro fiori si vestono “di un rosa delicato”. Insomma, le emozioni contrastanti che vive la protagonista, la lontananza del suo paese e, nello stesso tempo, l’accettazione del suo destino di sposa errante, vengono esplicitate dalla regista attraverso una drammaturgia cromatica che investe sia il piano delle immagini sia quello dei dialoghi. 

Il tempo scorre, Ryūko è diventata mamma: adesso Tanaka la veste con un abito floreale con nuances verde-blu, mentre il paesaggio si è arricchito delle piante di albicocco in fiore. Tanaka pone molta attenzione alla distribuzione cromatica delle inquadrature, un bilanciamento delicato ed emozionante tra gli abiti e il paesaggio: il golfino e la camicia di Futetsu che tendono al marrone chiaro e che “dialogano” con gli arbusti marroni e i fiori bianco-rosa; l’abito verde-blu di Ryūko che fa pendant con il cielo azzurro.

Arriva il 1941, con l’attacco di Pearl Habour: il fratello dell’imperatore del Giappone giunge in visita in Manciuria. A riceverlo all’aeroporto, un comitato di accoglienza composto anche da una serie di donne, tra cui la stessa Ryūko che questa volta indossa un abito, sempre di foggia cinese, completamente nero. Un ufficiale la rimprovera chiedendole che cosa ci faccia, quasi come se il matrimonio combinato le avesse anche tolto la sua identità giapponese. Non è quello il suo posto, la umilia l’ufficiale, deve spostarsi indietro nei ranghi inferiori. A dispetto di tutto ciò, il fratello dell’Imperatore durante la parata si sofferma proprio davanti a Ryūko: non solo, ma le dice con grande enfasi che la loro madre (dell’Imperatore e del fratello) la tiene in grande considerazione perché ella rappresenta un ponte tra due imperi.

Nella sequenza successiva è invece il rosa a dominare, non solo nell’abito che Ryūko indossa ma nel mood iperrealistico della sequenza: il cielo che vediamo alle spalle della donna, intenta a dipingere, si tinge di rosa e pervade tutta l’inquadratura. Al di là dell’intentio auctoris, ci sembra un momento in cui la componente metalinguistica emerga con forza: il pastiche cromatico che stiamo vedendo, calibrato con mano sicura dalla regista, sembra scaturire dal pennello che Ryūko intinge nella tavolozza mentre sta dipingendo. La bambina stessa, ormai grandicella, le chiede che cosa stia facendo: la madre le risponde che sta dipingendo e che i giorni più felici della sua giovinezza risalgono a quando era una studentessa d’arte. 

Con la dichiarazione di guerra (8 agosto 1945) al Giappone da parte dell’Unione Sovietica la situazione precipita e anche le attenzioni di Tanaka al codice cromatico dei costumi vengono meno. La Storia prende il sopravvento, non c’è più tempo per sofisticati outfit, da questo momento in avanti inizia l’esodo della famiglia reale costretta a spostarsi in un doloroso esodo verso il Giappone durante il quale viene fuori tutta la forza di Ryūko nel prendersi cura della moglie dell’imperatore e della figlia. In questa lunga seconda parte del film, l’azione si sposta in esterni, adesso lo sguardo di Tanaka abbraccia il paesaggio intero, prevalgono totali e campi lunghissimi disegnati dalla carovana umana che si sposta a piedi. Solo nella parte finale, con la tragedia privata che colpisce Ryūko e che svela la sequenza di apertura, il film torna a guardare nell’intimo della donna, consegnando al rapporto epistolare con Futetsu, prigioniero in Cina, la dolorosa condivisione del loro comune dolore. 


Valerio Costanzia


Titolo originale: 流転の王妃 (Ruten no ōhi); regia: Tanaka Kinuyo; sceneggiatura: Natto Wada, dal romanzo di Aishinkakura Hiroko; fotografia: Watanabe Kimio; scenografia: Mano Shigeo; musica: Kinoshita Chûji; interpreti: Kyō Machiko (Korinkakura Ryūko/ Hiroko Aishinkakura), Funakoshi Eiji (Futetsu /Aishinkakura Fuketsu), Kindaichi Atsuko (Empress Wan Rong), Higashiyama Chieko (Sugawara Nao), Sawamura Sadako (Sugawara Kazuko), Yashio Yuko (Asa), Mito Mitsuko (Izumi), Chishū Ryū (Kinoshita), Ishiguro Tatsuya (Furuya), Nanbu Shōzō  (Sugawara Hidesato); produzione: Fujii Hiroaki, Nagata Masaichi; durata: 102’; uscita in Giappone: 27 gennaio 1960.

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