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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

FLOWING (Nagareru, NARUSE Mikio, 1956)

SFUMATURE DI GRIGIO: IL CINEMA DI NARUSE MIKIO

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Il mondo delle geisha è un topos diffuso nella produzione del cinema giapponese degli anni Cinquanta e Naruse Mikio, sapiente esploratore della condizione e dell’anima femminile, aveva già ambientato in questo singolare contesto due film, il muto Apart from You (Kimi to wakarete, 1933) e Late Chrysanthemums (Bangiku, 1954), prima di realizzare, nel 1956, Flowing (Nagareru), adattamento di un romanzo omonimo (1955) di Kōda Aya e sommesso requiem per un universo giunto al tramonto. La sceneggiatura della pellicola – curata da Tanaka Sumie e Ide Toshirō, frequenti collaboratori del regista – riprende la complessa struttura del libro, che è ricco di sottotrame legate alla quotidianità delle geisha protagoniste ed è in parte basato su esperienze autobiografiche della scrittrice stessa. Kōda, infatti, aveva realmente lavorato come domestica in una okiya (la tipica “casa di geisha”) nell’inverno a cavallo tra 1951 e 1952 e aveva potuto osservare di persona le dinamiche di questo affascinante mondo, che Naruse mette in scena chiamando a raccolta un vero e proprio cast all stars, composto da alcune tra le migliori attrici dell’età d’oro del cinema nipponico, da Tanaka Kinuyo a Takamine Hideko, passando per Yamada Isuzu, Okada Mariko e Sugimura Haruko. 


Il film racconta il graduale declino di Casa Tsuta, un tempo prospera okiya nel vecchio “quartiere dei piaceri” di Tokyo. Otsuta, la okāsan (lett. “madre”, in questo caso “proprietaria / direttrice”) della casa, è a corto di soldi e pesantemente indebitata con sua sorella maggiore Otoyo. La giovane geisha Namie, per di più, la accusa di irregolarità nella distribuzione degli stipendi e lascia la casa, poco prima che suo zio si presenti per reclamare una somma di 300.000 Yen, a suo dire ingiustamente mai pagati alla nipote. Nel frattempo, tra mille incertezze, la vita quotidiana di Casa Tsuta prosegue e la giovane Katsuyo, figlia di Otsuta, si interroga sul proprio futuro, dal momento che ha deciso di non intraprendere la professione della madre. Tutto questo è filtrato attraverso lo sguardo della mite vedova quarantacinquenne Yamanaka Rika, per comodità rinominata Oharu, che viene assunta come domestica e serve fedelmente la comunità di geisha. 

Naruse, con Flowing, realizza un film corale, molto stratificato nei possibili livelli di lettura, che emergono a poco a poco dalle diverse linee narrative, sapientemente intrecciate. Il film, anzitutto, delinea con grande precisione la geografia domestica di Casa Tsuta: al pian terreno sono collocati gli spazi della vita comunitaria (due stanze principali comunicanti, una cucina, la stanza dove alloggia Oharu, un ingresso e un corridoio, oltre ai servizi igienici e alla sala da bagno), dove hanno luogo le discussioni, i diverbi e tutte le attività quotidiane delle geisha; al piano superiore, invece, si trovano due salette, in cui vivono Otsuta e Katsuyo, ma soprattutto in cui si svolgono gli snodi fondamentali della trama e si manifesta la dimensione più intima dei personaggi. È al piano di sopra, infatti, che la okāsan si interroga sulle reali possibilità di sopravvivenza di Casa Tsuta, confrontandosi con la disastrosa situazione economica e tenendo colloqui decisivi sia con la sorella maggiore Otoyo sia con Mizuno Ohama, autorevole funzionaria della Corporazione delle Geisha, a cui Otsuta si rivolge per ottenere aiuti finanziari; ed è sempre in quelle stanze che Katsuyo si confida con Oharu circa i dubbi sul proprio futuro. La giovane, infatti, pur rispettando profondamente la professione materna e avendo provato a praticarla per sei mesi in passato, non si ritiene adatta a essa e detesta il fatto che una geisha debba “adulare tutti, benché a nessuno importi realmente di lei”.

Naruse riesce a convogliare un’idea tanto forte e precisa degli ambienti in cui si ambienta la storia collocando la macchina da presa spesso nella medesima posizione, anche se in scene diverse, quando esse si svolgono nello stesso spazio. È come se in ogni stanza il regista avesse dei punti d’osservazione prediletti per guardare agli eventi che vi hanno luogo ed essi ricorressero continuamente nel corso del film. Questo conferisce a ogni ambiente una precisa identità proprio per come Naruse lo inquadra. Ne è un esempio il corridoio del piano terra, dove è collocato il telefono che più volte squilla durante il film, che è sempre ripreso dal fondo guardando verso l’ingresso o, viceversa, dall’ingresso verso il fondo, in un’alternanza di punti di vista fissi che rendono l’ambiente e le situazioni che vi hanno luogo immediatamente riconoscibili. Allo stesso modo, la strada antistante a Casa Tsuta è ripresa spesso nella medesima maniera, ponendo la cinepresa prima o dopo l’ingresso dell’edificio e inquadrando un capo o l’altro della via (in questo modo la casa appare talora a destra talora a sinistra nel fotogramma, così come accade al telefono nelle sequenze nel corridoio). 

Casa Tsuta, peraltro, è un edificio tradizionale in un quartiere antico di Tokyo e la ieratica geometria dei suoi spazi non fa che enfatizzare il fatto che le attrici paiano sempre calzare gli ambienti, come se essi fossero stati costruiti appositamente per ospitarle. Le linee rette, le porte scorrevoli, i corridoi, le finestre paiono sempre incorniciare le interpreti, come se esse fossero parte integrante dell’edificio, come se personaggi e scenografia si fondessero insieme per dar vita a fotogrammi di grande rigore formale, che semanticamente evocano la rigida ritualità delle vetuste tradizioni dell’ambiente delle geisha. In effetti, sia la strada su cui affaccia Casa Tsuta sia l’edificio in sé rimandano proprio alle dimensioni dell’antico a cui appartiene quella cultura: la via è pedonale, laddove nelle strade adiacenti sfrecciano a tutta velocità veicoli a motore (Oharu, verso l’inizio del film, rischia addirittura di essere investita da un motocarro), e la casa è chiaramente antica, come le tradizioni che vi vengono perpetuate, sebbene in essa comincino a intravedersi i primi segni della modernità incombente, dal telefono al ventilatore, dalla radio al massaggiatore elettrico. 

Naruse racconta la realtà della okiya negli anni Cinquanta con taglio quasi documentaristico, evitando qualsiasi sensazionalismo o enfasi melodrammatica e sottolineando invece le pratiche sociali ed economiche che regolano la vita dell’attività. Flowing, in questo senso, è al tempo stesso simile e molto diverso da un altro capolavoro del cinema nipponico uscito nello stesso anno, La strada della vergogna (Akasen chitai, 1956) di Mizoguchi Kenji, che da un lato adotta la prospettiva corale per raccontare il declino di una casa di tolleranza, sottolineando il ruolo del lavoro nella vita delle protagoniste e descrivendo accuratamente i meccanismi che lo governano (con particolare enfasi sull’aspetto pecuniario, centrale anche in Naruse), e dall’altro ha una vena tragica assente nella pellicola oggetto di questa analisi. La tonalità emotiva che pervade Flowing, infatti, è prevalentemente la malinconia per il tempo che passa e il mondo che cambia. Otsuta, a poco a poco, comprende che le glorie di Casa Tsuta appartengono davvero al passato e chiede alla signora Mizuno di acquistare la okiya, dopo che il suo benefattore ed ex amante Hanayama (personaggio sempre solo menzionato: sorta di invisibile potere economico maschile) le nega ulteriori aiuti finanziari. La donna, in questo modo, comprende che “non può più dipendere dagli uomini per il proprio sostentamento”. Questo aspetto la pone in contrasto rispetto a Katsuyo che, appartenendo a una generazione successiva, ha ben chiaro di dover riuscire a mantenersi da sola, senza bisogno di aiuti esterni (pensa che nessuno vorrà sposare una “geisha a metà” come lei), e per questo si prepara alla professione di operaia cucitrice, benché Otsuta reputi questo impiego poco dignitoso per la propria figlia. Le geisha, infatti, avevano un ruolo di prestigio sociale, in quanto custodi delle tradizioni e delle arti ma, come denuncia la okāsan nella scena davanti allo specchio, in cui Oharu la aiuta con l’acconciatura dei capelli, “le giovani geisha ormai sono come tutte le altre donne”: è una sequenza di grande tristezza, in cui Otsuta descrive il crepuscolo di una cultura guardandosi allo specchio, osservando su se stessa e sulla propria pelle “non più bella come un tempo” ciò di cui parla. Il contrasto generazionale è espresso da Naruse anche attraverso elementi formali: al minuto ventisettesimo, ad esempio, il regista alterna due inquadrature composte nello stesso modo, perfettamente sovrapponibili per la collocazione a destra dei personaggi e la loro posa leggermente chinata in avanti, in cui si vede prima Otsuta che suona il samisen in abiti tradizionali e poi Katsuyo che cuce in vesti occidentali (figura 1), peraltro indossate occasionalmente anche dalla giovane geisha Nanako, i cui cambi di abbigliamento nel film suggeriscono ulteriormente l’antitesi tra Casa Tsuta e il mondo esterno.


Figura 1

La parte finale di Flowing, infine, è piuttosto complessa. È ormai chiaro che Casa Tsuta sia destinata, presto o tardi, a chiudere i battenti: la nuova proprietaria Mizuno Ohama, addirittura, ipotizza di aprirvi a breve una nuova sede del proprio ristorante e peraltro, poco prima, viene mostrato un alterco tra la geisha Someka, abbandonata dal proprio amante, e Katsuyo, la quale afferma che le donne non abbiano bisogno degli uomini. Someka ride alle parole della giovane e la reazione di Otsuta, colma di pensosa tristezza, suggerisce che anche la okāsan si sia ormai convinta dell’impossibilità per le donne, e per le geisha in particolare, di non dipendere dagli uomini: non a caso, nel momento in cui è venuto a mancare il sostegno del mecenate Hanayama, la donna è stata costretta a vendere la casa alla Mizuno. Eppure, come scrive Catherine Russell in The Cinema of Naruse Mikio. Women and Japanese Modernity (Duke University Press, 2008), il film si chiude con una “riaffermazione delle arti tradizionali di musica e danza su cui si fonda il mondo delle geisha”. Nel finale, in effetti, vediamo Fujiko, la nipote seienne di Otsuta, che si esercita nel ballo e, poco dopo, viene presentata a Casa Tsuta una nuova geisha, Takiko: sono loro a rappresentare il fragile futuro delle antiche tradizioni. Al piano di sopra, nel frattempo, Katsuyo cuce a macchina, intenta ad apprendere il lavoro operaio che le permetterà (così spera la giovane) di mantenere se stessa e la madre, la cui professione è destinata a venir meno con la vecchiaia e lo sfiorire del corpo. La musica del samisen, suonato a regola d’arte da Otsuta e Someka sotto lo sguardo attento delle aspiranti geisha bambine, si fonde col rumore meccanico della moderna cucitrice in una malinconica sinfonia. Testimone silenziosa della scena è Oharu, che mette in relazione piano inferiore e superiore della casa, portando delle focacce dolci sia alle geisha sia a Katsuyo. Nello sguardo di questa “dea del focolare domestico”, che sembra rimandare al genere shomin-geki (drammi delle gente comune) tanto amato da Naruse, si affaccia in maniera sempre più chiara la consapevolezza di osservare il crepuscolo di un mondo, travolto dal fluire del tempo. 

Jacopo Barbero


Titolo originale: 流れる (Nagareru); regia: Naruse Mikio; sceneggiatura: Ide Toshirō, Tanaka Sumie (dal romanzo di Kōda Aya); fotografia: Tamai Masao; montaggio: Ooi Eiji; musica: Saitō Ichirō; scenografia: Chūko Satoru; interpreti: Tanaka Kinuyo (Yamanaka Rika / Oharu), Yamada Isuzu (Otsuta), Takamine Hideko (Katsuyo, figlia di Otsuta), Okada Mariko (Nanako), Sugimura Haruko (Someka), Kurishima Sumiko (Mizuno Ohama), Nakakita Chieko (Yoneko, sorella minore di Otsuta), Kahara Natsuko (Otoyo, sorella maggiore di Otsuta), Miyaguchi Seiji (zio di Namie), Katō Daisuke (ex di Yoneko); produzione: Toho Company; durata: 117’; anno di produzione: 1956; uscita in Giappone: 20 novembre 1956.
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