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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

PASTORAL: TO DIE IN THE COUNTRY (Den-en ni shisu, TERAYAMA Shūji, 1974)

22° NIPPON CONNECTION (Francoforte, 24 – 29 maggio 2022) – Sezione NIPPON RETRO

SONATINE CLASSICS

 

 

Pastoral: to die in the country, presentato nel 1975 al Festival di Cannes e ispirato all’omonima serie di haiku scritti da Terayama stesso, è un’ autobiografia metacinematografica che esplora l’adolescenza del regista e crea un mondo surrealisticamente in bilico tra realtà, fantasia, grottesco e misticismo, concentrandosi sul rapporto conflittuale con la madre e sui primi turbamenti sessuali, provocati dalla meravigliosa e raffinata vicina di casa, popolando il mondo della propria adolescenza con  figure assurde, creando un dialogo tra passato e presente del regista attraverso il filtro della mente e dei ricordi.  Le vicende narrate nel film si svolgono in un villaggio ai piedi del Monte Osore, nel distretto di Aomori, dove il regista era nato e cresciuto. Tali località, ribattezzate nel film “Montagne Spaventose”, sono note soprattutto per la presenza delle leggendarie “itako”, donne cieche dalla nascita che portano avanti pratiche sciamaniche, rivolgendosi alle quali è possibile, secondo la tradizione, mettersi in contatto con gli spiriti delle divinità e dei defunti. Questo contesto in cui Terayama è cresciuto ha influenzato la sua poetica e la sua ossessione verso mondi irreali.

La storia, in un primo momento, si concentra sul tentativo di un ragazzo quindicenne di scappare dalle grinfie di una madre iperprotettiva,  definita come un mostro, e da una società oppressiva. Il giovane Terayama vive nella campagna di un Giappone onirico, visionario e all’apparenza surreale, composto da luoghi desertici, colorati  in base alla sensazione provata in quel momento dal regista, abitati da personaggi eccentrici e caratterizzati da storie tragiche. I volti dei personaggi sono talvolta dipinti di bianco, delle maschere prive di espressioni, come se il ricordo di quegli anni  avesse creato un velo sugli avvenimenti che circondano il protagonista. La presenza di un circo, di chiara felliniana memoria come lo è d’altronde tutta la pellicola, una sorta di Amarcord del regista giapponese, ispira nel ragazzo nuovi sentimenti di indipendenza, mentre il rapporto con la nuova vicina sveglia in lui sensazioni ed istinti tipici della pubertà. Questa sorta di coming of age è filtrato dalla scoperta della sessualità, per cui potenzialmente ogni elemento di quel mondo può essere collegato alla sfera delle pulsioni sessuali, come ad esempio la preparazione di un costume di scena di un personaggio del circo, da gonfiare con una pompa d’aria, che si trasforma in un orgasmo. Dallo sfavillante e surreale mondo presentato nella prima metà, si passa a un’incursione breve nel mondo moderno, una parentesi noir, intrisa del fumo di sigarette, in cui si scopre la natura metacinematografica dell’opera di Terayama, che mostra il desiderio del regista stesso di confrontarsi con la propria creatura filmica, basata sulla sua adolescenza. 

 

La seconda parte del film rivisita la prima, mostrandoci gli avvenimenti come realmente accaduti, ma sempre messi in scena con colori irreali e scenari grotteschi. Il regista dialoga fisicamente con il sé stesso del passato e pone diversi interrogativi: è possibile cambiare il nostro trascorso, anche nella finzione? La vita del presente è costruita sul passato, oppure questo è solo un fardello che siamo costretti a portarci appresso per il resto della nostra esistenza? In questa partita a scacchi con la nostra vita precedente, che sembra rappresentare la messa in scena di un’autoanalisi psicanalitica, il film sembra dirci che non è possibile cambiare ciò che è stato e porta avanti una decostruzione dell’io e dei propri ricordi, della nostra tendenza a repellere la verità in favore di una versione dei fatti più accomodante per la nostra coscienza, comportamento che ci rende schiavi e da cui è necessario purificarsi. L’opera risulta essere una confessione sincera del regista, la messa in scena di pensieri e sentimenti che hanno costruito la sua persona, utilizzando il film per elaborare il tutto e comprendere sé stesso. Il cinema diventa mezzo per raggiungere la consapevolezza di ciò che si è, strumento artistico di grande potenza. A questi concetti, molto cari e ricorrenti nel cinema di Terayama, è affiancata la trattazione di diverse tematiche sociali, a partire da quelle riguardanti l’incomunicabilità tra gli individui, in particolare se riferita a persone di generazioni diverse, fino alla condanna delle rigide convenzioni sociali su cui è costruito il Giappone. Il risultato è un film che costruisce la sua forza sul concetto di libertà espressiva spinta agli estremi, sulla distruzione delle regole sociali e anche cinematografiche tradizionali.

A livello fotografico il regista esplora tutta la palette di colori possibile, creando immagini di grande potenza visiva che ricordano il cinema di Jodorovsky e del già citato Fellini e che hanno probabilmente ispirato le opere recenti del francese Bertrand Mandico, con alcune scene del suo ultimo film After Blue che sembrano direttamente ispirate alle immagini di Pastoral: to die in the country. Interessante notare come invece la struttura narrativa ricordi quella del recente gioiellino Zombie contro zombie, anche se utilizzata con motivazioni e risultati finali profondamente diversi.

Luca Orusa

 

Titolo originale: 田園に死す (Den-en ni shisu); regia: Terayama Shūji; sceneggiatura: Terayama Shūji; fotografia: Suzuki Tatsuo; montaggio: Yamaji Sachiko; musiche: Seazer J. A.; interpreti: Suga Kantaro (Me), Takano Hiroyuki (Me, as a boy), Harada Yoshio (Arashi); produzione:  Kujo Eiko, Kuzui Kinshirô, Terayama Shūji; durata: 101’. 

 

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