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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

A TOWN OF LOVE AND HOPE (Ai to kibō no machi, ŌSHIMA Nagisa, 1959)

22° NIPPON CONNECTION (Francoforte, 24 -29 maggio 2022) – Sezione NIPPON RETRO
 
SONATINE CLASSICS
 

 

 
Negli anni ’50 la Shōchiku torna nelle mani dell’autoritario Kido Shirō (rimosso dal suo incarico di direttore nel periodo dell’occupazione), intenzionato a svecchiare la storica casa di produzione. Sul finire del decennio, Kido offre al giovane e turbolento Ōshima Nagisa, pensatore e attivista radicale da tempo impiegato come aiuto regista, la possibilità trasformare in lungometraggio la sua sceneggiatura The Boy Who Sold His Pigeon (Il ragazzo che ha venduto il suo piccione).
In quegli anni il cinema giapponese è in fermento: nuovi autori (Ōshima, ma anche Shinoda Masahiro e Yoshida Kiju, tra gli altri) da tempo sono mobilitati artisticamente (e dunque politicamente) nella definizione di nuove forme espressive in contrasto col sentimentalismo dei “padri”, individuati in Ozu, Kinoshita e in generale in tutta la linea produttiva della Shōchiku. Il quadro non è dissimile dalla concomitante esplosione della Nouvelle Vague europea: l’esordio di Ōshima difatti precede di un anno À bout de souffle di Jean-Luc Godard.
Ōshima ha modo di trasformare in immagine le proprie teorizzazioni (anch’egli, come Godard, ha una formazione come critico cinematografico) e il suo film, scarno e potente, definisce un nuovo linguaggio più aderente alle disillusioni e alle contraddizioni di un paese diviso rigidamente in classi sociali. Scene brevi e affilate delineano un cinema della crudeltà, innervato di malattia, dai gelidi contrasti in bianco e nero e portatore di uno stato di malessere tra le sue linee oblique, i primi piani afasici e quasi bloccati in fermo-immagine, la struttura narrativa asciutta e irregolare.
Kido non è però soddisfatto del prodotto finale, che gli appare troppo controverso e soprattutto privo di un rassicurante lieto fine. Il film viene condannato a una distribuzione molto limitata e il titolo modificato in A Town of Love and Hope (Una città di amore e speranza), grottesco rovesciamento della realtà fotografata da Ōshima. 
 
 
La trama è essenziale: Masao, studente povero ma brillante e orgoglioso, vive tra le baracche con la madre vedova e la sorellina affetta da handicap. Il suo unico reddito deriva dalla vendita (e rivendita) di piccioni, molto amati dalla sorella, per la quale rappresentano uno strumento affettivo e relazionale. Una volta venduti, però, i piccioni scappano dai loro acquirenti e fanno istintivamente ritorno a casa; questa “frode” viene scoperta dalla società borghese e benpensante, che esprime un verdetto di colpevolezza nei confronti di Masao, inchiodando al suo status.
 
La sequenza d’apertura si innesta su uno schema tradizionale – un campo lunghissimo sulla città – ma la cupa colonna sonora insinua subito il sentimento d’un deragliamento, accompagnando un panning laterale dai quartieri urbani verso lo squallore dei margini. Le baracche, le ciminiere fumanti e i silos già presenti nel cinema di Ozu (ad esempio Una locanda di Tokyo, 1935) qui assumono una dimensione schiacciante e occupano tutta l’inquadratura, come presagi d’oppressione.
Uno stacco ci riporta nel cuore della metropoli, nella piazza della stazione. Il giovane Masao è seduto a terra, accanto ad un gruppo di anziane lustrascarpe, mentre tra le mani stringe la piccola gabbia del piccione in vendita. Intorno a lui scorrono veloci i passanti, di cui vediamo solo i piedi: un espediente, quello di usare i piedi come figura retorica allusiva a una città brulicante, già usato da Ozu negli anni ’30. Pur nella sua protesta, il giovane Ōshima ha assimilato gli aspetti formalmente innovativi del maestri che lo hanno preceduto.
 

 

Entra in scena Kyōko, giovane e ricca studentessa figlia di un industriale; la ragazza acquista il piccione e prende a cuore la situazione di Masao, con un atteggiamento sincero ma non privo di invadenza. Nella sua ingenuità, Kyōko crede che la condiscendenza di un prezzo e la generosità della propria famiglia possano salvare Masao; ma una volta tornata a casa, suo fratello la riporta alla realtà: “Non voglio che tu sia esposta alla bruttezza e alla miseria.”
 
Ōshima, con uno stile ellittico e rapido, fatto di numerosi stacchi (quasi ad interrompere i dialoghi) dimostra il senso di urgenza che lo pervade. Con brevi inquadrature, il regista passa in rassegna oggetti, enumera elementi volti a esprimere la disperazione in cui vivono Masao e la sua famiglia. La fredda e umida baracca è appena illuminata da una lampadina, e alle pareti sono appesi gli inquietanti disegni della piccola Yasue, raffiguranti animali morti. Ogni tanto Ōshima stacca sul volto della bambina, contratto in un sorriso innaturale, semplicemente inespressivo o deformato dal pianto. Il taglio espressionista dei piani e l’inesorabile cupezza dell’ambiente incutono nello spettatore un sentimento di disagio che Ōshima amplifica con le dissonanze della colonna sonora o depistandoci con l’uso di codici dell’horror. Spesso, all’interno della baracca, i personaggi diventano pure linee d’ombra, fantasmi inquadrati di spalle. È come se il regista ce li presentasse “già morti”: nella realtà ripresa da Ōshima, l’orrore è sempre in agguato, insito nella vita stessa.
 

 

L’attenzione particolare alla composizione dell’inquadratura esprime l’oppressione di classe in modi differenti: una variante è rappresentata dalla breve relazione tra Akiyama, modesta insegnante di Masao, e Yuji, il ricco fratello di Kyōko. L’umanista e ingenua Akiyama cede alle pressioni sentimentali di Yuji; il suo approccio con lui è spesso messo in scena nelle forme di un passaggio, come un attraversamento di porte, di archi illuminati dalla luce, o schiacciata contro muretti notturni. Akiyama ha una funzione di “mediazione” all’interno del racconto – il critico Satō Tadao (1) parla di “umanesimo artificiale” riguardo al suo personaggio, che trova poco interessante e meramente funzionale. Eppure è proprio nella descrizione di questo impossibile rapporto di coppia che Ōshima ci regala alcune tra le sequenze più belle: come un carrello “dentro” una finestra (fino a raggiungere il mare all’esterno, su cui cala l’ombra della notte), in sostituzione della più classica e abusata dissolvenza incrociata come convenzione del “tempo che passa”; o il primissimo piano delle mani che si “lasciano”, metafora della rottura tra due classi sociali e due visioni del mondo inconciliabili.
 

 

L’apparente paralisi del film viene scossa da una scena violenta che introduce anche una svolta formale: la distruzione della gabbia del piccione da parte di Masao. Categorizzato dalla famiglia di Kyōko come “criminale” in seguito alla scoperta della truffa del piccione, il ragazzo infierisce con un’ascia sulla vecchia, consunta gabbia di legno. Una distruzione “automatica”, apparentemente priva di emozioni ma colma di rabbia e orgoglio ferito, di un oggetto che simboleggia la sua prigione sociale. Intanto Yasue, cui ancora una volta Ōshima dedica i primi piani, piange disperatamente: la bambina ha la vulnerabilità e l’innocenza di un animale, di quegli stessi piccioni cui è così legata. Da questo momento la macchina da presa viene inclinata lateralmente, risultando in inquadrature oblique, deviate e drammatiche.
 
Il film si conclude con un gesto che simbolicamente racchiude tutto l’”orrore dei giusti”: Kyōko decide di farsi giustizia da sé uccidendo il piccione, rivelando una visione morale completamente distorta e mettendo a nudo la violenza di un potere esercitato dalla borghesia sui più deboli. La ragazza chiede al fratello di colpire l’animale con un colpo di fucile, senza pietà alcuna, e la povera bestiola cade sui tetti dopo un volo sbilenco interrotto da uno sparo. Il cielo è bianco; Ōshima gira la scena segmentandola in immagini che quasi creano una sequenza alla Muybridge. Il volto di Kyōko, il cui movimento è cubisticamente spezzato in più “fermo-immagini” ci appare brutto, il corpo irrigidito. Altrove, Masao è curvo al lavoro, sorridente e ignaro, mentre la colonna sonora stride, imprimendo un ultimo sguardo d’angoscia.
 

 

Marcella Leonardi
 
Titolo originale:  愛と希望の街 (Ai to kibō no machi); regia e sceneggiatura: Ōshima Nagisa; fotografia: Kusuda Hiroshi; musiche: Manabe Riichirō; produzione: Shōchiku; durata: 62’; interpreti: Fujikawa Hiroshi (Masao), Timinaga Yuki (Kyōko), Watanabe Fumio (Yuji), Mochizuki Yūko (Kuniko, madre di Masao); prima uscita in Giappone: 17 novembre 1959. 
 
 
Note
 
1) Satō Tadao, “Eiga Geijutsu”, n. 1, 1960.
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