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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

DESTINY’S SON (Kiru, MISUMI Kenji, 1962)

Il Cinema Ritrovato. Bologna 25 giugno – 3 luglio 2022

Retrospettiva “Misumi Kenji: un regista istintivo”

 

 

Primo film della cosiddetta trilogia della spada, Destiny’s Son / Kiru (il termine giapponese significa “uccidere con la spada”) è saldamente costruito intorno alla figura del suo protagonista, Shingo Takakura (è lui il figlio a cui il titolo internazionale del film si riferisce), interpretato da Ichikawa Raizō, vera e propria icona del jidaigeki giapponese degli anni Sessanta. Sceneggiato da Shindo Kaneto (che in veste anche di regista ha lasciato un segno indelebile nel cinema del suo Paese con opere come L’isola nuda, 1960, Onibaba – Le assassine, 1964, e Il gatto nero, 1968), il film narra il drammatico destino di Shingo Takakura, dalla scoperta delle sue vere origini e della tragica morte della madre sino alla lotta, a fianco del suo nuovo signore Matsudaira, contro le frange estremiste del clan Mito, in conflitto contro lo Shōgun e i barbari provenienti dall’Occidente.

La vicenda si struttura intorno a due grandi isotopie tripartite che hanno a che vedere da una parte con la figura del padre, dall’altra con quella della donna, nelle vesti di madre, sorella e amante. Nei fatti il protagonista si ritrova ad aver a che fare con tre figure paterne: dapprima quella del genitore adottivo, Shin’nemon, poi, dopo la morte di questi e in un fugace ma particolarmente intenso incontro, quella del padre reale, Sōshi, e, infine, quella del genitore putativo, Matsudaira, che cercherà inutilmente di proteggere dagli estremisti del clan Mito. Da questa prospettiva Kiru è la storia di un uomo e della sua vana ricerca di un padre (quello adottivo e quello putativo gli vengono uccisi, e il terzo, quello reale, vive isolato in un tempio di montagna prigioniero del ricordo di colei che fu sua moglie, come di fatto fosse già morto). Questa drammatica realtà esistenziale, segnata da un evidente scacco, si ritrova pari pari nei confronti dell’universo femminile, lungo un cammino che passa nuovamente attraverso tre figure, anch’esse destinate alla morte. Innanzitutto, quella della madre, Fujiko, vittima di giochi di potere più grandi di lei, che prima la obbligano ad uccidere – nello straordinario incipit del film, una vera e propria scena da antologia – e poi la condannano a morte. A seguire c’è la sorella (adottiva), Yoshio, che gli è intensamente legata e attenderà con pazienza il suo rientro a casa dopo tre anni di vagabondaggio “formativo”, per poi finire uccisa dal suo invidioso vicino di casa. A chiudere, c’è la sorella di Mondo, che per nascondere a coloro che la vogliono uccidere, Shingo trascinerà nel futon, come a spacciarla per la sua donna e amante. Anche questo tentativo, però, come vedremo meglio più avanti, sarà vano e la donna perirà sotto i colpi di spada dei suoi nemici. Senza più padri, senza madre, senza sorella, senza amante, Shingo non potrà che portare a termine il suo dramma esistenziale, la sua “discesa agli inferi”, che nel modo degno a un samurai: il seppuku

La complessità della sceneggiatura di Shindo, i suoi risvolti esistenziali, i tragici giochi del fato, sono magnificati da una regia che trova i suoi momenti più alti in almeno quattro sequenze. Innanzitutto, l’incipit, che avvia la storia in medias res, ponendosi come un enigma che solo più avanti sarà chiarito, in cui Fujiko, la futura madre di Shingo, uccide, per ordine ricevuto, la concubina del suo signore. Si tratta di una sequenza che eccelle nell’uso del montaggio, delle angolazioni, nella composizione dei piani, nei rapporti fra i pieni e i vuoti, nel contrasto fra la lenta ieraticità che precede l’omicidio e la frenesia delle immagini che lo seguono. Poi c’è il combattimento tra Shingo e gli uomini di Ikebe – una delle tante scene di chanbara del film – che si svolge in un bosco di alberi privi di vita, scheletrici, che rende ancora più tragico e mortuario il “destino del figlio” e sembra ripreso da un film espressionista. A seguire, c’è la scena della sorella di Mondo che incapace di restare stesa nel futon insieme a Shingo, come fosse la sua amante, decide di accorrere in soccorso del fratello, liberandosi ad uno ad uno dei diversi strati dei suoi kimono – in uno striptease squisitamente giapponese – e affrontando nuda i suoi rivali, creando così in loro quello sconcerto che permetterà al fratello di fuggire (si tratta di una sequenza in cui l’irruzione del corpo femminile in un universo altro, che qui è quello della cultura maschilista e fallocratica dei samurai e del Giappone dell’epoca, ricorda lo strip di Sigourney Weaver in Alien). Infine, va citata ancora la sequenza della morte di Matsudaira, il terzo e ultimo “padre” di Shingo, che, ambientata in un sontuoso palazzo feudale, gioca sull’attesa, sulla ricerca del figlio del corpo esanime del genitore, attraverso una serie di campi vuoti, di fusuma (le porte scorrevoli) che vengono aperti dal protagonista solo per mettere in campo un altro spazio vuoto, dove ancora non c’è quel che si cerca, in una sorta di percorso metaforico che è tutt’uno con lo scacco esistenziale dello stesso Shingo, del suo tragico “destino”.

Dario Tomasi

 

Titolo originale: 斬る (Kiru); regia: Misumi Kenji; soggetto: da un romanzo di Shibata Renzarō; sceneggiatura: Shindo Kaneto; fotografia: Honda Shōzō; scenografia: Naitō Akira; montaggio: Suganuma Kanji; musica: Saitō Ichirō; interpreti: Takakura Shingo (Ichikawa Raizō), Kamaguchi Fujiko (Fujimura Shiho, la madre di Shingo), Matsudaira Ooinokami (Yanagi Eijirō, il padre putativo di Shingoreale), Tada Sōshi (Amachi Shigeru, il padre di Shingo) Takakura Shin’emon (Asano Shinjirō, il padre adottivo) Ikebe Giichirō (Inaba, il perfido vicino) Yoshio (la “sorella” di Shingo), Tadokoro Mondo (Banri Masayo); produzione:  Daiei; durata: 71’; prima uscita in Giappone: 1 luglio 1962.

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