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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

THE BLUE SKY MAIDEN (Aozora musume, MASUMURA Yasuzō, 1957)

SPECIALE MASUMURA YASUZŌ E WAKAO AYAKO
SONATINE CLASSICS

di Marcella Leonardi

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«Deliberatamente rifiuto il sentimento, altero la realtà e nego l’atmosfera» (in Storia del cinema giapponese, M.R. Novielli, Marsilio, p.202). Così nel 1958 Masumura esprimeva la sua visione incendiaria nei confronti del cinema “dei padri” e scriveva un sintetico manifesto di cinema nuovo, alieno da sentimentalismi e portatore di un’inedita individualità “forte” espressa in forme soggettive.

Tra i registi meno noti della Nūberu bāgu, di cui è tra i promotori istintivi, Masumura debutta alla regia nel 1957, dopo un apprendistato con Ichikawa e Mizoguchi. The Blue Sky Maiden è il suo secondo film e inaugura la collaborazione con la versatile e luminosa Wakao Ayako, impaziente di liberarsi dagli stereotipi di graziosa e passiva brava ragazza cui sembrava destinata. Il film segna, seppur prevalentemente sul piano formale, l’irruzione rivoluzionaria di Masumura nel panorama cinematografico degli anni Cinquanta e la definizione di un nuovo personaggio femminile dotato di carattere e volontà individuale, “corpo estraneo” colmo di desiderio.

Figlia illegittima di un dirigente, la diciottenne Yuko è una Cenerentola di campagna costretta a sopportare le angherie di una matrigna e una sorellastra di Tokyo. Ma la ragazza “aspira al cielo”, a quel blu che le infonde coraggio e speranza; sopportando le circostanze con stoicismo e buon umore, decide di trovare la sua vera madre e la propria felicità. La sua innocenza vince l’aridità della metropoli e la corruzione della nuova gioventù senza scrupoli, americanizzata e priva di valori.

La critica sociale di Masumura è (ancora) condotta con gentilezza, ma le scelte estetiche sono decise e imprimono gravità a questa commedia melodrammatica dai colori sirkiani, a sua volta affascinata dall’America. Sono inoltre numerose le leggere sfasature, le anomalie disseminate all’interno di una vicenda tradizionale, segnali dello spirito ribelle del regista. Il film si apre sull’immagine di una macchina fotografica: tre giovani studentesse sono intente a “riprendere se stesse” interrogandosi sulla propria vita, sui propri gusti, piaceri e desideri. Un incipit che rimanda al recente It’s a Summer film dove l’obbiettivo della macchina da presa, per le tre giovani protagoniste, funge da mediazione tra l’io e il mondo. (fig. 1,2,3)

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Musumura disloca le sue figure femminili su piani differenti: in avampiano, in piano medio e Yuko sullo sfondo, a giocare col mare. Pensierosa e legata alla propria terra, la nostra protagonista si preoccupa dell’imminente trasferimento a Tokyo, mentre le sue compagne, civettuole e affettuose, la invitano all’allegria. L’inquietudine è percepibile nella regia di Masumura, che movimenta le inquadrature con riprese dal basso e dall’alto: tumulto e cambiamenti, tra cielo e terra. L’attenzione del regista per un’immagine stratificata, in cui i personaggi occupano lo spazio dividendolo in gerarchie e dimensioni parallele, è indicazione della sua visione di cinema come luogo di corpi, espressione di individualità differenti e racconto soggettivo.
Emblematica la sequenza in cui vediamo Yuko prima in campo lunghissimo, sulle rocce a capofitto sul mare, accanto alla sagoma di un grande albero stagliato contro il cielo: la ragazza è soggetto attivo che si confronta con le cose. Con uno stacco Masumura si avvicina e la pone al centro dell’inquadratura, elemento divisivo in grado di “spaccare in due l’immagine naturale”. Yuko, di spalle, è assorta in un pensiero cui non abbiamo accesso; ma i contorni della sua figura ne dichiarano la presenza, l’irriducibilità, superando la vecchia concezione di fragilità e passività femminile.
Significativi i valori cromatici: al verde/blu del paesaggio, con il cielo che scolora nel mare, Masumura contrappone il grafismo della camicia bianca e gonna rossa: due segni puri e netti.
Da verticale, l’immagine si estende in orizzontale quando la giovane si sdraia sull’erba: un movimento che stabilisce il suo “essere nel mondo” (fig. 4 e 5).

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L’arrivo di Yuko alla stazione di Tokyo è molto divertente e si serve di un procedimento “da cinema indipendente”: mantenendo la posizione della protagonista al centro, il regista lascia che personaggi buffi o particolari entrino ed escano dall’inquadratura. Una bizzarra galleria di varia umanità scorre davanti ai nostri occhi anticipando la schizofrenia della metropoli prima ancora di entrarvi.

Ancora più interessante è il suo ingresso alla villa paterna: Masumura si adopera per sottolineare “l’intrusione” della ragazza, enfatizzandone le proporzioni ingombranti come un’Alice in uno spazio troppo stretto.
Con invisibili stacchi di montaggio, il regista ci conduce dal fuori al dentro, rivelando un ambiente completamente occidentalizzato: dalla stanza in cui alcuni ragazzi suonano il jazz, ad arredi di design moderno e industriale, sino alla camera da letto dove la sorellastra sembra emergere da un interno sirkiano, come una Lana Turner sovreccitata e destinata alla delusione (fig. 6 e 7). Masumura accentua la distanza tra Yuko e ciò che la circonda mediante intensi primi piani o l’impiego di lunghezze focali che la pongono in avampiano e la trasformano in spettatrice/osservatrice della vita sbandata alla villa.

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Il racconto procede con riprese che alternativamente guardano all’azzurro o ci riconducono alla terra. Questa separazione tra alto e basso, speranza e pragmatismo, operosità nel raggiungimento del sogno ha un sapore “alla Miyazaki” e Yuko non è dissimile dalle sue tante protagoniste da Satsuki a Chihiro, da Kiki a Sophie – pronte a non lasciarsi intimorire dalle avversità e a cambiare il proprio destino.
Per un regista come Masumura, che di lì a poco dichiarerà di odiare morale e messaggi, può apparire insolita la predilezione per una ragazza di campagna, con i suoi ideali di integrità e gentilezza; ma così come Yuko si rivelerà tutt’altro che ingenua, anche la regia manifesta un’esibita plurivocità, attratta dai colori, dagli oggetti, dallo scintillio delle auto, dei telefoni o accessori di origine occidentale (fig 8). Masumura è sedotto dal piacere, dall’edonismo, dal godimento estetico della modernità nella stessa misura in cui lo è la “gioventù bruciata” che vive nella villa.
In tal senso la sequenza più significativa è il “Ping Pong Party”, trionfo di vacuità e grottesco nonsense, ma anche esplosione di dinamismo, velocità, colore. La bruttezza caricaturale dei giovani ospiti immortalati in espressioni ottuse, quasi un fermo-immagine, viene messa in risalto dal confronto con la grazia combattiva della protagonista. (fig. 9 e 10)

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Masumura manifesta apertamente il suo distacco dallo stile del passato: la sua macchina da presa è veloce, curiosa, mobile; sottolinea, ingrandisce o fugge. Un telefono gigante (in una prospettiva alla Hitchcock) diventa oggetto-emblema di solitudine, tensione alla comunicazione (fig. 11); un giradischi il segno di un’alienazione culturale.
Non manca però un bellissimo momento “alla Naruse” quando padre e figlia, dopo una passeggiata, entrano in un night club: luci artificiali, ombre e colori sembrano creare uno spazio onirico separato dalla realtà, in cui personaggi si sentono abbastanza protetti per finalmente lasciarsi andare e confessarsi. (fig. 12 e 13)

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In ultimo, Yuko ricomporrà gli equilibri familiari dopo averli spezzati; ma non c’è dubbio che la visione di Masumura sia quella della fida e complice Yae, cameriera della villa, che in un impeto di rabbia si lascia sfuggire l’esclamazione: E’ veramente troppo! Non c’è modo di trattare con questi borghesi!”. Di fronte a una società che cambia e all’involuzione che ne consegue, non resta, come Yuko, che “diventare cielo”, scegliere il blu come nota interiore, astrazione e futuro.

Titolo originale:青空娘 (Aozora musume); regia: Masumura Yasuzō; sceneggiatura: Shirasaka Yoshio, Genji Keita; fotografia: Takahashi Michio; musica: Kosugi Taichiro; interpreti: Wakao Ayako (Yuko); Kawasaki Keizō (Ryōsuke); Miyake Kuniko (Machiko); produzione: Daiei; durata: 88′; prima uscita in Giappone: 8 ottobre 1957.

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