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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

A JAPANESE TRAGEDY (Nihon no higeki, KINOSHITA Keisuke, 1953)

SPECIALE KINOSHITA KEISUKE

di Dario Tomasi

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Col termine haha-mono (storie di madri) si indica in Giappone una serie di film a carattere melodrammatico – realizzati in particolare fra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta –, che hanno per protagonista donne il cui amore filiale le spinge verso i più estremi sacrifici, che non sempre saranno poi loro riconosciuti. Fra i film più rappresentativi del “genere” ci sono A Mother Should Be Loved (1934) e The Only Son (entrambi diretti da Ozu Yasujirō), Forget Love for Now (Shimizu Hiroshi, 1937), Mother (Naruse Mikio, 1952) e A Japanese Tragedy (Kinoshita Keisuke, 1953).

Nel Giappone del dopoguerra, la vedova Haruko ha cresciuto a fatica i suoi due figli: Utako, che studia inglese e si guadagna ora da vivere come sarta, e Seiichi, che frequenta l’Università. Di umili origini, la madre, per trovare i soldi necessari al mantenimento della famiglia, ha lavorato a lungo in un albergo dal carattere equivoco. Quando Utako e Seiichi lo scoprono, iniziano a maturare nei suoi confronti un sentimento di astio, sconfinante nell’odio, che li porterà sempre più ad allontanarsi da lei. Alla fine, Utako deciderà di fuggire con uomo sposato, il suo insegnante di inglese, e Seiichi si farà adottare da una ricca famiglia, il cui padre dirige un ospedale. Abbandonata da entrambi, la donna si getterà sotto un treno

Caratteristica saliente di A Japanese Tragedy è la sua narrazione interrotta. Da una parte ci sono i titoli dei quotidiani e gli spezzoni dei cinegiornali, al fine di collegare il fatto di cronaca cui il film è ispirato al drammatico contesto nazionale del Paese – la tragedia del Giappone –; dall’altra, brevi flashback soggettivi che ricostruiscono, ma in modo molto frammentario, episodi passati dalla famiglia protagonista, e che talvolta interrompono la continuità del presente anche solo per un’inquadratura.  Il tutto dà al film un andamento narrativo “sussultante”, lontano dalla continuità dei modelli classici, che ne fa quasi un antesignano del nuovo cinema giapponese ancora a venire.

A Japanese Tragedy è un melodramma freddo e crudele, sostanzialmente senza musica di commento, che evita la deriva del lacrimevole, in cui cade molto cinema giapponese medio del periodo, anche in conseguenza all’uso di mizoguchiani piani sequenza, che strutturano lo sviluppo di una scena – vedi ad esempio quella straordinaria al cimitero, in cui il figlio comunica alla madre di essersi fatto adottare da un’altra famiglia – attraverso un gioco incrociato di movimenti dei personaggi e della macchina da presa, che tramite un’alternanza di passaggi statici e passaggi dinamici, fissa in determinati quadri i momenti salienti di una determinata situazione drammatica, e che, almeno in certi casi, si danno in lontananza – come ad esempio accade nella scena appena citata, nel momento in cui la madre, dopo che il figlio si è allontanato, rimane sola –. Una scena, quest’ultima, che trova la sua grande efficacia espressiva anche nella scelta di accompagnarne la parte conclusiva con l’improvvisa irruzione delle voci e dei suoi suoni di un comizio elettorale – uno dei tanti che si vedono o si ascoltano nel film – e che sembra essere lì solo per segnare la distanza tra i drammi delle persone e una politica che scende fra la gente solo quando le è necessario per raccogliere dei voti. 

Regista eclettico, anche sul piano stilistico, Kinoshita non rinuncia tuttavia, in altri momenti, a primi piani assai intensi: come quelli glaciali e indifferenti di Utako e Seichi, o quello “sfatto” e senza più alcuna speranza, forse il piano ravvicinato che del film dura di più, della madre in treno poco prima di prendere la sua drammatica decisione. Un gesto estremo che il regista prepara accuratamente attraverso un movimento di macchina che dà vita a due quadri in cui la donna, di nuovo lontana dallo sguardo della macchina da presa, è riquadrata da assi di legno che, oltre a dirigere su di lei lo sguardo dello spettatore, rendono angusto lo spazio in cui si trova, lasciandola per così dire… senza respiro, prima che un suo sandalo rimasto sulla banchina ne decreti la fine.  

In conclusione, si possono ancora indicare altre due soluzioni interessanti di Una tragedia giapponese. Una è la frequenza di conversazioni in cui qualcuno parlando dà le spalle a qualcun altro, come segno di indifferenza e non disponibilità a comprenderne le ragioni (e qui di nuovo si potrebbe citare la scena del cimitero, quando, disperata, la madre abbraccia il figlio da dietro e questi non si degna nemmeno di voltarsi) e poi la presenza di diversi personaggi e situazioni di contorno che nella sostanza riecheggiano la situazione della madre e dei due figli, allargando così il discorso all’intera realtà giapponese del dopoguerra. 


Titolo originale: 日本の悲劇 (Nihon no higeki); regia e sceneggiatura: Kinoshita Keisuke;  assistente alla regia: Kobayashi Masaki; fotografia: Kusuda Hiroshi; scenografia: Nakamura Kimihiko; musica: Kinoshita Chūji; interpreti e personaggi:  Mochizuki Yūko (Haruko, la madre), Katsuragi Yōko (Utako, la figlia), Taura Masumi (Seiichi, il figlio), Uehara Ken (Akazawa Masayuki, l’insegnante di musica), Takahashi Teiji (Satō), Sada Keiji (il suonatore di strada); produzione: Koide Takashi, Kuwata Ryōtarō per Shōchiku; uscita in Giappone: 17 giugno 1953; durata: 116’.

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